Cari fratelli
e care sorelle,
la Chiesa di oggi, la nostra comunità, sta facendo un cammino di
purificazione e di riappropriazione della fede in maniera più evangelica,
anche se con dolore dovremo sempre dire che la sposa non sarà mai
come lo Sposo la vorrebbe.
La nostra comunità, come il piccolo Resto d’Israele, lentamente
cambia cercando di passare dall’esteriorità della fede alla
presa di coscienza della fede come fatto personale e non individuale.
Personale, perché la fede è sempre una chiamata-proposta
che Gesù rivolge alla singola persona dalla quale aspetta una risposta.
Non individuale, perché la fede non è mai un’esperienza
privata, ma una professione pubblica, che introduce nella comunità
dei salvati dello stesso identico e unico Salvatore Gesù Cristo.
Oggi più che mai è presente questa preoccupazione nella
Chiesa, affinché essa veramente sia sale, lievito e luce in un
contesto mondano dove sempre più sembra emergere un’antropologia,
una concezione dell’uomo mutilata, perché ciò che
conta e vale è solo una parte di esso a scapito della verità
stessa dell’uomo così come lo ha pensato il Creatore.
Secondo un pensiero errato e contro l’uomo stesso si sostiene da
parte di molti che è più importante
l’umano del
divino;
il materiale dello
spirituale;
il privato del pubblico;
il singolo della
comunità;
l’esteriorità
dell’interiorità;
il piacere del dovere;
…
Si potrebbe continuare con questa ricerca amara, ma lascio a voi il compito
dell’indagine al fine poi di riequilibrare il tutto non dimenticando
Colui che per noi è il vero UOMO, il vero ADAMO dal quale abbiamo
ricevuto la Vita in abbondanza e cioè la sua vita di Risorto vincitore
di ogni male compresa la morte, specialmente quella spirituale.
Solo Gesù ci ha insegnato la verità, perché Lui stesso
è la VERITA’; in Lui scopriamo con evidenza indiscussa la
bellezza della vita nella sua ricchezza e complessità.
Carissimi il Risorto è l’unica nostra guida che ci conduce
al Padre della vita, e allora teniamo stretta la sua mano anche quando
la Provvidenza permetterà a noi di percorrere una valle oscura:
siamo sicuri della Sua presenza, perché Egli ci sarà.
Il Risorto, Gesù nostro amico e unico Salvatore, dimori sempre
nel nostro cuore.
Don Pierangelo

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S. Ambrogio e S.
Agostino: le radici dell’Europa Fino
al 2 maggio 2004 il Museo diocesano di Milano, in corso di Porta Ticinese
n° 95, ospita la mostra “ 387 d.C.; Ambrogio e Agostino le sorgenti
dell’Europa “.
“ L’idea di riportare all’attenzione del grande pubblico
queste due figure eminenti del Cristianesimo e della teologia cattolica
- spiega monsignor Luigi Crivelli, responsabile dell’Ufficio diocesano
Beni culturali - nasce dalla volontà di coinvolgere l’Europa
intera nella scoperta delle sue radici.”
Chi è Sant’Ambrogio
Santo, padre e dottore della Chiesa, nacque a Treviri (Germania) verso
il 334.
Era figlio di un alto funzionario prefettizio della Gallia; di famiglia
cristiana non fu battezzato alla nascita, secondo un’usanza di quell’epoca.
Studiò diritto a Roma divenendo a sua volta funzionario dell’amministrazione
civile e, nel 370 circa, governatore dell’Emilia e dell’Insubria,
con residenza a Milano. Per la sua dirittura morale e la sua saggezza
si guadagnò la stima del popolo.
Nel 374 morì a Milano il vescovo e i Milanesi si trovarono in contrasto
per la nomina del successore. Ambrogio, com’era suo dovere di governatore,
cercò di mettere pace fra i contendenti, ma appena ebbe finito
di parlare la folla lo acclamò vescovo. Ambrogio rimase turbato:
lui, laico e non battezzato, vescovo?
Cercò di sfuggire a tale responsabilità, ma dovette arrendersi;
Ambrogio, dopo aver ricevuto il battesimo, fu ordinato vescovo il 7 dicembre
del 375.
Come Vescovo combattè contro la diffusione dell’eresia ariana.
Nei 23 anni del suo episcopato, Ambrogio si prodigò in opere di
carità e assistenza; lottò ardentemente contro le ingiustizie
e i soprusi; scrisse profonde opere di fede e compose inni sacri, dando
origine alla liturgia, che venne poi detta “Ambrosiana”. Morì
nel 397, rimpianto dai Milanesi, che avevano visto rifulgere in lui alte
qualità umane e spirituali.
In rapporti amichevoli con Monica, madre di Agostino, ebbe un ruolo decisivo
nella conversione di quest’ultimo alla fede cristiana, battezzandolo
nel 387.
Chi è Sant’Agostino
Agostino, filosofo e santo, nacque a Tagaste (in Numidia, Africa), nel
354. È uno dei più eminenti padri e dottori della Chiesa.
Figlio di padre pagano e di madre cristiana, nel 371 Aurelio Agostino
si recò a Cartagine per compirvi gli studi. All’età
di diciannove anni, riconobbe in sé la vocazione alla filosofia;
dopo un breve tempo, aderì al manicheismo, religione di originr
persiana, largamente diffusa in Africa settentrionale.
Insegnante prima a Tagaste, poi a Cartagine, nel 383 si recò a
Roma, dove sperava di trovare studenti più disciplinati e migliori
possibilità di carriera; a Roma rimase poco più di un anno.
Nell’autunno del 384 si trasferì a Milano, avendo ottenuto
l’incarico di professore ufficiale di retorica della città.
L’esperienza milanese segnerà una svolta radicale nella vita
e nel pensiero di Agostino.
L’incontro con il vescovo della città, Ambrogio, contribuì
alla sua conversione al Cristianesimo: divenuto catecumeno nel 385, Agostino
riceve il battesimo dalle mani di Ambrogio nel 387.
Tornato a Tagaste, Agostino venne ordinato sacerdote due anni dopo e nel
397 fu nominato vescovo di Ippona, in un periodo di disordini e di conflitti
teologici: i barbari premevano ai confini dell’Impero, mentre la
Chiesa si vedeva minacciata da eresie e scismi.
Agostino lottò contro dottrine eretiche che negavano il valore
assoluto dei Sacramenti e la dottrina del peccato originale. Durante il
suo ministero elaborò le sue dottrine sul peccato originale e la
grazia divina.
Nelle Confessioni invece esplora l’animo umano, le verità
che vi sono custodite, i sentimenti e le passioni; sottolinea come la
coscienza sia il luogo della presenza di Dio nell’anima.
Agostinò morì a Ippona nel 430.
Dal 23 al 30 agosto si svolgerà il pellegrinaggio parrocchiale
in Tunisia, sui passi di S. Agostino.

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Il Santuario della Madonnina
del bosco Già in
occasione della prima visita di S. Carlo ad Origgio nel 1566, si fa accenno
all’esistenza “una chiesa assai bella e nuova, dedicata a
S. Maria, in mezzo alla campagna, con la cappella dell’altare fornita
di volta dipinta, piuttosto bassa, con un solo altare, senza pavimento,
con tetto e tre porte aperte”. (Notizie riportate nel volume “Origgio,
mille anni di storia”).
Nel 1945 ritroviamo notizie del Santuario nello scritto del cappuccino
padre Domenico Borroni di Origgio, “Storia del Santuario della Madonna
del Bosco in Origgio”:
“Fuori da Origgio, oltre il cimitero, lungo la strada che conduce
alla Muschiona, gli antenati avevano edificato una cappella alla Madonna
Addolorata. Essendo la località al limitare dei boschi, la cappella
venne chiamata Madonna del bosco. Di origine probabilmente medioevale,
la cappella è chiusa da una cancellata di legno, con un rustico
portico davanti, sostenuto da due colonnette di granito.
Aveva un altare di legno, infisso nel muro, sotto l’affresco della
Madonna; poteva contenere una cinquantina di persone. Ai fianchi dell’altare
vi sono due statue di legno, finemente lavorate in barocco perfetto, rappresentanti
l’Arcangelo Gabriele e Maria: è il mistero dell’Annunciazione
di Maria e l’Incarnazione del Verbo.
Sul fondo dell’altare c’è un affresco raffigurante
la deposizione di Cristo dalla croce (foto della pagina)”.
La cappella venne rovinata il 15 settembre del 1934, per un incidente
occorso ad un giovane contadino che stava caricando erba grossa sul suo
carretto trainato da un asino, proprio nel campo accanto alla cappella.
“Ad un tratto passa sull’autostrada un autocarro: lo strano
rumore dell’automezzo spaventa l’asino, che si dà a
fuga precipitosa, investendo col carretto una delle due colonne e facendole
cadere entrambe: crollarono il portico, la facciata della cappella, parte
del tetto e del muro. Rimase intatta la parete su cui era l’affresco
della madonna Addolorata.
Nel marzo del 1935 furono iniziati i lavori di restauro, cui contribuì
la popolazione origgese, soprattutto muratori e carpentieri. L’antico
affresco venne incorniciato da un arco fra due colonne; la nuova cappella
fu inaugurata il 9 settembre 1935”. Da allora il Santuario ha richiesto
e ricevuto cure, manutenzioni e restauri.
Partiranno a breve i lavori di manutenzione necessari: il campanile sarà
consolidato, le pareti esterne ed interne saranno ritinteggiate, i fregi
saranno ritoccati. All’interno di “Voce amica” c’è
una busta, che offre la possibilità di dare un aiuto per il restauro
del Santuario, che tutta la comunità, ciascuno di noi deve sentire
suo: tutti dobbiamo sentirci coinvolti nel suo mantenimento.

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I
bambini, vittime della violenza degli adulti
“Solo chi si fa piccolo è in grado di accogliere con amore
i fratelli più piccoli”. È questo il cuore del messaggio
del Papa, nella sua riflessione quaresimale che ha avuto per tema “Chi
accoglie anche uno solo di questi bambini in nime mio, accoglie me”
(Mt 18,5).Abusi sessuali, sfruttamento, Aids. “Che male hanno fatto
questi bambini - si è chiesto il Papa - per meritare tanta sofferenza?
Solo la fede ci aiuta a penetrare un così profondo abisso di dolore.
Ci sono minori che sono profondamente feriti dalla violenza degli adulti:
abusi sessuali, avviamento alla prostituzione, coinvolgimento nello spaccio
e nell’uso della droga; bambini obbligati a lavorare o arruolati
per combattere; innocenti segnati per sempre dalla disgregazione familiare;
piccoli travolti dal turpe traffico di organi e di persone. E che dire
della tragedia dell’Aids con conseguenze devastanti in Africa?
L’umanità non può chiudere gli occhi di fronte a un
dramma così preoccupante. Penso con grata ammirazione - ha aggiunto
il Papa - a coloro che si prendono cura della formazione dell’infanzia
in difficoltà e alleviano le sofferenze, dei bambini e dei loro
familiari, causate dai conflitti e dalla violenza, dalla mancanza di cibo
e di acqua, dall’emigrazione forzata e da tante forme di ingiustizia
esistenti nel mondo”.
Terribile è anche la situazione dei cosiddetti “bambini soldato”:
sono più di 300.000 i fanciulli attualmente impegnati in conflitti
nel mondo. Centinaia di migliaia hanno combattuto nell’ultimo decennio
sia in eserciti governativi, che in armate di opposizione. Decine di migliaia
corrono ancora il rischio di diventare soldati. Il problema più
grave è in Africa e in Asia, ma anche in America e Europa parecchi
Stati reclutano minori nelle loro forza armate. Anche le ragazze, sebbene
in misura minore, sono reclutate e frequentemente soggette allo stupro
e a violenze sessuali.
L’invito del Papa è quello di unire “l’impegno
sociale con l’annuncio del Vangelo”, rifiutando di “trattare
i bambini con indifferenza”. No, dunque, al diffuso sentimentalismo
che suppone nei bambini un candore innocente. Sì invece ada una
fede che va al di là di una partecipazione occasionale, per affrontare
i drammi vissuti, subiti da milioni di bambini nel mondo.

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La procreazione
assistita è legge dello Stato: riflettiamo insieme
di Luigi Clerici La
legge sulla procreazione assistita è stata varata dal Senato italiano,
giovedì, 11 dicembre 2003, con 169 voti a favore, 92 voti contrari
e 5 astenuti.
Si tratta di un testo che si fonda su un’idea ben precisa, ovvero
assicurare “i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il
concepito”.
Una definizione che ci potrà sembrare ovvia, ma se diamo uno sguardo
a quanto accade in Europa su questa materia, la cosa non è del
tutto scontata.
E anche le polemiche, talvolta dai toni che possiamo definire “violenti”
dal punto di vista verbale, che hanno accompagnato la sua predisposizione
e votazione, hanno dimostrato che su questo argomento, come su altre tematiche
che riguardano la vita e la morte, le nazioni del vecchio continente vivono
uno scontro ideologico radicale, le cui conseguenze possono anche lasciarci
esterrefatti.
In questo caso lo stato italiano ha deciso di porsi dalla parte del soggetto
più debole, ovvero l’essere umano nella fase iniziale del
suo sviluppo. Si tratta proprio, però, dello stesso embrione che
negli anni ‘70 era stato definito una “cosa” dalle leggi
che introdussero l’aborto nel nostro paese. E qui si potrebbe iniziare
a riflettere su come mai, in una determinata situazione, l’embrione
sia titolare di diritti, innanzitutto quello alla vita, e in altri casi
no!
Definita erroneamente l’ultima battaglia “cattolica”,
la nuova legge sulla fecondazione assistita è stata votata da quasi
tutte le forze politiche della Casa delle libertà e da molti esponenti
della Margherita, ma spulciando il testo legislativo questo non può
certo essere definito cattolico. Il testo infatti riconosce diritti giuridici
a una pratica, la fecondazione artificiale, che contraddice l’insegnamento
del Magistero che vieta ogni forma di riproduzione in vitro ed ogni tecnica
che sostituisce l’atto coniugale. Inoltre il ricorso a questo sistema
contraddice anche la legge naturale, perché ammette una pratica
che comporta sistematicamente l’eliminazione di numerosi embrioni
umani, perché, in pratica, non è possibile arrivare al concepimento
senza sacrificarne una certa quantità. Ma in nessun organo di stampa
si legge di tutti quei bambini mai nati, condannati a un aborto certo!

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OLTRE LA MASCHERA DELL’ODIO
di Giovanni Ruggiero
In scena a Torino uno spettacolo, “Bereshit” che ripercorre
il dramma di Israele e Palestina, recitato insieme da giovani attori
arabi e ebrei che vivono in Galilea.
Bereshit, vocabolo che significa “in principio”, quando
ebrei, arabi e palestinesi erano “figli di un solo Padre”.
La maschera inespressiva che i ragazzi del gruppo “Il Teatro Arcobaleno”
di Angelica Calò Livnè portano sul viso non l’hanno
avuta in eredità dal Padre. Gli uomini se la sono fatta da soli,
con i loro pregiudizi, le loro paure e i loro sospetti l’un per
l’altro.
È la maschera che porta al terrorismo che insanguina il Medio
Oriente.
Sono 25 gli attori: ragazzi dei kibbutz ebraici e dei villaggi arabi
del Nord di Israele, al confine con il Libano.
Sulla scena hanno vesti e casacche di diversi colori che dividono, ma
sul volto la stessa maschera: li accomuna nell’odio, nella paura
e nel sospetto. Ce ne vorrà perché ciascuno se la tolga
dal volto. Se cade davvero, per questi ragazzi è come toccare
il sogno. Noah, alla fine, canta: “È finita, è tutto
passato”.
Negli occhi hanno la stessa luce e lo stesso desiderio di pace. Le culture
si incontrano. Le fedi si interrogano. e cadono le prime maschere. Non
sono i soli. Altri del gruppo fanno lo stesso. Ora sono amici. Si guardano
negli occhi. Capiscono che cercano la stessa cosa: la pace.
Come aiutarli? Afferma Batia: “Dovete imparare a non schierarvi
contro, dovete desiderare anche voi la pace. Siamo noi a decidere, non
i governi, perché i governi non sanno bene le cose”. Come
vivono la loro terribile realtà quotidiana? Risponde Amal, poco
più di 14 anni: “Cerchiamo ogni giorno di dimenticare,
anche se è difficile accettare che ogni giorno un tuo amico è
morto”. Un altro giovane attore, ebreo, dice: “Una volta
ho sentito dire che se anche vai per una strada buia alla fine trovi
la luce. Io ogni giorno aspetto questa luce”.
Ricordiamo le parole che Angelica ha pronunciato prima che iniziasse
lo spettacolo: “Uno dei mali è che spesso abbiamo le finestre
e le porte della nostra anima chiuse”.
Lei con questo spettacolo vuole aiutare i ragazzi italiani delle città
dove faranno tappa ad aprire uno spiraglio, convinta che stia già
succedendo qualche cosa.
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In
ricordo del nostro fratello Grazioso
Dalla predica di don Pierangelo durante la Messa funebre
Siamo nella Settimana Santa e tutto ci richiama alla riflessione sulla
morte di Cristo, anche con il colore liturgico dei paramenti, il rosso,
colore del martirio, che ci invita a riflettere sul vero valore della
morte. Come sempre ci vengono in aiuto le parole del Vangelo che abbiamo
letto (Giov. 11, 1 - 14, Risurrezione di Lazzaro). In questo brano vediamo
il turbamento dell’animo di Gesù per la morte dell’amico
Lazzaro, ma ancor più il turbamento e la tristezza per l’incomprensione
dei discepoli verso la morte.
Gesù, che sembra già dire qui “la mia anima è
triste fino alla morte”, spiega come vivere nell’attesa della
morte, quando afferma che 12 sono le ore della luce, ma una sola è
quella privilegiata, la nona, quando “si fece buio su tutta la terra”,
l’ora ultima, quella che introduce alla vera luce. L’ora della
morte ha in sé due facce, la morte corporale e la nuova vita, la
vita eterna. Il Signore ci invita allora a vivere la nostra vita protesi
verso quest’ora, l’ora suprema che riassume in sé tutte
le altre.
Pensando a Grazioso, penso a come anche lui, in questi ultimi mesi, tempo
anche di malattia e sofferenza, ha atteso con fiducia quest’ora
Quando si è nella luce bisogna operare per Dio, fare la volontà
del Padre attraverso le opere e la testimonianza.
Grazioso ha atteso il compimento della sua ora in silenzio, quasi per
non disturbare, un silenzio orante, fatto di preghiera, soprattutto il
Rosario, perché era molto devoto alla Madonna. Si è preparato
così a vivere la sua ultima liturgia, dopo tutte quelle preparate
per noi: messe, funerali, matrimoni, battesimi, alle quali arrivava sempre
in anticipo per predisporre tutto l’occorrente e aspettando in silenzio,
recitando il Rosario.
È passato tra noi come un angelo, al quale dobbiamo solo dire grazie
e augurare la beatitudine celeste. Ha servito questa comunità in
umiltà, ora è bello pensarlo in paradiso a servire un’altra
comunità.
Era un uomo di fede, una fede fatta di opere e di preghiera silenziosa.
A Grazioso va il più sentito ringraziamento, mio personale e di
tutta la comunità. Poco fa dicevamo in sacrestia, in questo luogo
che è come il ritrovo di una piccola famiglia, che ci manca. A
ognuno di noi mancherà ora la sua cara presenza.
Ma siamo sicuri della sua presenza dall’alto e della sua preghiera
di intercessione per la nostra comunità.
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La “Passione”
secondo Mel Gibson (dalla recensione di R.Di Diodato)
È uscito, nelle scorse settimane, il film di Mel
Gibson “La Passione di Cristo”.
Dal punto di vista narrativo, il regista prende in considerazione le ultime
dodici ore di vita di Gesù, dalla sera del Getsemani alla morte
sul Calvario.
L’idea gli venne durante una forte crisi spirituale, che lo fece
riflettere profondamente sulla sua fede e sul significato della sofferenza
e del dolore, del perdono e della redenzione compiuta da Cristo.
Mel Gibson racconta il “cuore” della storia più grande
e straordinaria.
Le prime narrazioni attorno alle quali si formarono i vangeli furono,
infatti, quelle della passione, morte e risurrezione del Signore.
Sono moltissime le opere cinematografiche che si sono ispirate ai racconti
evangelici e i volti di Gesù nel cinema sono i mille volti dell’uomo,
segnati dalle sue fatiche e dai suoi dolori, dalle sue speranze e dalle
sue paure, ma anche dal profondo bisogno di dare un senso alla vita.
Mel Gibson ha voluto raccontarci il Gesù delle sofferenze estreme,
quello di alcune mistiche come Theresa Nuemann e Katharina Emmerick (
di quest’ultima la S.Paolo ha pubblicato quest’anno il libro
“La Passione del Signore nelle visioni di Katharina Emmerick”).
Il regista ha dichiarato: “Volevo mostrare la grandezza del sacrificio
e l’orrore che lo caratterizza”. E c’è riuscito!
Questo Gesù mette a disagio, ma nello stesso tempo trasmette forti
sentimenti di compassione. Non c’era ancora nella storia del cinema
un Gesù così duro e trasgressivo rispetto al Gesù
“tradizionale”.
Attorno al film è nata una forte polemica, quando qualcuno ha voluto
vederci una posizione antisemita; vedendo il film, ci si rende conto che
non c’è nemmeno la più piccola traccia di antisemitismo:
quindi la polemica è ingiustificata.
“La Passione di Cristo” è solo un film: abile, coinvolgente,
discusso, ma sempre un film. E non è perciò il caso che
la Chiesa, che ha responsabilità e compiti ben più gravi,
sia chiamata a prendere posizione, pro o contro, tale opera.
Mel Gibson, da uomo credente, dovrà essere contento se il suo film
spingerà qualcuno a riprendere in mano la sacra pagina del Vangelo
e ad avvicinarsi con sincerità e umiltà alla persona di
Cristo.

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Algeria a viso aperto
di Henri Teissier - Arcivescovo di Algeri
(da “Cristiani in Algeria: la Chiesa della debolezza” Ed. Emi)
Questo secolo ha conosciuto, più degli altri,
persecuzioni sanguinose contro la presenza cristiana.
Ci sono stati i martiri del comunismo ateo in Urss, Cina, Vietnam e in
molti altri paesi.
Ci sono stati i martiri del nazismo o quelli della guerra di Spagna.
Ci sono stati i martiri dell’Africa centrale ( Ruanda, Congo, Burundi)
o quelli che, in America latina, davano la propria vita per solidarietà
con i contadini poveri, vittime del sistema del denaro e del potere. In
questa lunga lista di vittime, i martiri dell’Algeria occupano un
posto particolare. Certo non sono che un piccolo gruppo, numericamente
parlando, rispetto alle grandi persecuzioni che abbiamo appena ricordato.
Ciò che è particolare ai martiri dell’Algeria è
che sono stati indotti a dare la vita non per non rinnegare la loro fede,
né per difendere una comunità cristiana, ma per fedeltà
a un popolo musulmano. I 19 religiosi e religiose, martirizzati in Algeria
tra il ‘94 e il ‘96, non erano rimasti in quel Paese per sostenere
una comunità cristiana (la maggior parte dei cristiani infatti
aveva dovuto abbandonare il Paese man mano che si radicalizzava il fondamentalismo
algerino), ma perché convinti che l’amore verso i fratelli
e le sorelle dell’islam doveva spingersi fino ad assumersi un rischio:
per loro significava restare fedeli al Vangelo della fraternità
universale.
Padre Henri Vergès e la suora dell’Assunzione sono state
vittime della fedeltà ai giovani liceali del quartiere povero della
Casbah, l’8 maggio 1994. Le missionarie spagnole sono state vittime
della fedeltà agli abitanti del quartiere popolare di Bab el-Oued
il 23 ottobre 1994, davanti alla porta della loro cappella. I quattro
Padri Bianchi di Tizi Ouzou sono rimasti fedeli alla popolazione della
Cabilia. Le suore di Nostra Signora degli Apostoli a quella del quartiere
di Belcourt, suora Odette a quella di Kouba, i sette monaci ai contadini
di Tibhirine. Ed è anche per fedeltà al suo popolo, cristiani
e musulmani insieme, che monsignor Clavarie è rimasto al suo posto
anche se sapeva di essere minacciato.
La Chiesa del Vaticano II aveva mandato i nostri martiri presso un popolo
non cristiano, perché l’immensa famiglia dei figli di Dio,
per i quali si può donare la vita, supera tutte le barriere confessionali,
culturali o etniche.
Questa evoluzione è stata colta anche da molti amici musulmani.
Si sono sentiti colpiti dagli attacchi contro di noi, come se facessero
parte della famiglia cristiana. Molti ci hanno scritto la loro emozione.
Erano del resto molto più numerosi dei cristiani alla sepoltura
dei padri di Tizi Ouzou, a quella dei sette monaci o a quella di Claverie.
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Kurdistan, cristiani a rischio di Mirella Galletti
I cristiani curdi si dicono evangelizzati dall’apostolo Tommaso.
Di certo sono fra i cristiani più antichi del mondo. Provengono
da una regione contesa, un’area frantumata tra quattro Stati (Iraq,
Iran, Turchia e Siria), nella quale convivono etnie diverse (arabi, iranici,
turcomanni, ebrei) e differenti fedi o confessioni (sanniti, Yezidi, ebrei).
Parlano dialetti neoaramaici e seguono il rito siriano.
Durante la “guerra dimenticata” del 1980/88 tra Iran e Iraq
emigrarono in massa alla volta di Stati Uniti, Canada, Australia, Francia.
Ignorati dall’Occidente e preoccupati dall’ascesa del fondamentalismo
islamico, rischiano l’estinzione: oggi solo centomila vivono nella
regione.
A lanciare l’allarme è la storica Mirella Galletti. Docente
universitaria e instancabile viaggiatrice, massima esperta italiana della
questione curda.
“Queste comunità, già disperse, - dice M. Galletti
- rischiano di scomparire da un’area dove anche solo la presenza,
come sottolineava Paolo VI, è estremamente significativa. Di fatto
sono l’anello più debole. Nel Kurdistan turco, negli anni
‘80-’90, i cristiani si trovarono presi tra la guerriglia
di Ocalan e la repressione di Istanbul. Oggi sono praticamente scomparsi.
La presenza più massiccia, sulle 50.000 unità, resta in
Iraq.
Il destino dei cristiani del Kurdistan è inestricabilmente legato
al destino dei curdi, soprattutto dei curdi iracheni. Nei villaggi cristiani
l’istruzione è più elevata che tra i musulmani e i
legami con l’estero più saldi. Nell’ultimo decennio
il Kurdistan iracheno è stato una fucina di democrazia e un laboratorio
oggi indicato a modello per tutto l’Iraq.
La questione curda è poco nota, quella dei cristiani è quasi
sconosciuta, anche perché le stesse comunità non vogliono
destare clamori: doppiamente minoritarie, in mezzo a curdi e arabi, hanno
scelto di sopravvivere evitando pericolose scelte di campo. Sta a noi
non dimenticarci di loro”.
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