NASIRIYAH
Nel nome di Dio
di Colui che ha donato la vita
di Colui che ha voluto ogni vita
di Colui che ama ogni uomo
Nel nome di Gesù Re della Pace
di Gesù unico Salvatore,
facciamo memoria di quelli che sono morti,
corpi lacerati, squartati, sfigurati
e disprezzati come rifiuti maleodoranti,
uomini cancellati dalla faccia della terra,
uomini deturpati nella loro bellezza,
persone calpestate nella dignità,
figli dell’Altissimo, uccisi dal fratello Caino.
A questi che non sono più,
che hanno varcato le porte dell’eternità,
che contemplano il Volto splendente
dell’Eterno, fonte della Vita,
pace, riposo e gioia siano donati.
Fratelli, vittime della violenza,
della guerra, del terrorismo,
della vendetta e di ogni sorta di male,
voi che siete l’olocausto dell’assurdo,
voi che avete versato sangue innocente,
voi che ora siete testimoni di una vita piena,
gridate nel silenzio a tutti gli uomini
la via della Pace,
perché la bellezza della vita e la sua verità
siano comprese e accolte da tutti nella pace.
Il Dio della Pace, il Re della Pace,
Gesù nostro Salvatore,
regni nel cuore di ogni uomo.
don Pierangelo

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Carissimi fratelli e sorelle,
shalom, cioè pace e benedizione a voi, alle vostre famiglie, ai
vostri figli, ai vostri anziani, e specialmente ai più dimenticati
della Parrocchia, perché ammalati, soli o lasciati ai margini da
noi che non abbiamo mai tempo e amore da donare a loro.
Tutti vogliono essere amati, accolti, ben visti, ma forse pochi tra noi
sanno vivere il comandamento del Dio fatto uomo, Gesù Cristo, cioè
l’insegnamento e la testimonianza di un amore che si dona.
Mi sono chiesto che cosa volesse dire per me prete celebrare il Natale.
La risposta l’ho trovata nella mia vocazione; chiamata alla vita,
chiamata alla vita cristiana, chiamata al ministero sacerdotale per la
santa Chiesa e per l’intera umanità. Chiamata che fa riferimento
a una verità oggettiva e vincolante, a una Persona, a Gesù
Cristo vero uomo, vero Dio, che ha svelato la grandezza, la bellezza,
il valore della vita in Dio. In Lui ho trovato il senso della vita e il
dono della vita, perché Lui è Vita e Amore.
Natale è Natale di Gesù, è Natale di Dio che visita
l’umanità per ricrearla e trasfigurarla in vita divina di
amore eterno.
Dio Padre, fonte della Vita e dell’Amore che si dona, ci ha donato
suo Figlio, il Verbo della Vita, rivelazione dell’Amore increato
e della Bellezza incomparabile e noi stessi siamo rivelazione e testimonianza
di Lui, Eterno ingenerato che ci ha chiamati alla vita, perché
lo annunciassimo e lo facessimo conoscere ai vicini, ai lontani, ai parenti,
agli amici, ai dubbiosi, agli indifferenti, a tutti. Il Figlio suo Gesù
è il Dono più grande del suo Amore, della sua vicinanza,
della sua benevolenza e della sua benedizione.
A Gesù dobbiamo tutto, perché tramite Lui tutto abbiamo
ricevuto dal Padre: la vita, gli affetti, l’amore, la compassione,
la condivisione, il sostegno, la perseveranza, la speranza ultraterrena
della luce eterna, la salvezza della vita stessa.
In Lui viviamo,
in Lui amiamo,
il Lui confidiamo,
in Lui speriamo,
a Lui ci doniamo,
per Lui doniamo tutti noi stessi ai fratelli,
e tra loro i primi siano
quelli che bussano alla porta del nostro cuore,
chiedendo aiuto, comprensione,
sorriso, benevolenza, tenerezza e perdono.
É Gesù stesso che bussa alla porta
e allora apriamogli con fiducia,
perché ora ha bisogno di noi.
A tutti auguro il Natale di Gesù
perché Lui sia accolto come Persona amica, il Salvatore,
e perché Lui sia accolto nel fratello che bussa alla porta.
don Pierangelo
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Che mi darai
o Dio alla fine di questo giorno
quando gli occhi si spegneranno
le orecchie si chiuderanno
e la lingua tacerà?
Che mi darai
o Dio quando la morte arriverà
e mi porterà alla Tua Presenza
perché la vita sia giudicata?
Nulla merito
nulla pretendo
nulla chiedo
se non la Tua compassione
affinché il male
non fugato
anzi vilmente cercato
sia dissolto dalla Luce
tua fulgida
che vince le tenebre.
O Dio buono,
sommamente buono
l’Unico che sa amare
senza chiedere
a Te consegno
il mio gretto cuore che ti ha tradito
venduto e umiliato.
Questo cuore
Tu lo puoi sanare
Tu lo puoi inondare di luce
Tu lo puoi santificare
unendolo strettamente a Te
che lo hai creato per Te
perché sia eternamente con Te.
Vieni Gesù!

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NATALE 2003
Dolce Gesù
Figlio del Compassionevole
Figlio del Misericordioso
Figlio del Padre
figlio di Maria
figlio della Madre Santa
obbediente
amorosa
figlio adottivo del giusto Giuseppe
padre e custode
premuroso,
mistero dell’Incarnazione
di Dio che si fa uomo
umile
povero
debole
nascosto agli uomini,
Epifania di Dio
sei per noi
la Presenza vicina
la Bellezza incomparabile
la Verità inafferrabile
la Luce sfolgorante
la Mano divina
che accompagna
accarezza
sostiene
consola
corregge
e indica la meta
il termine
la casa della comunione
dell’Incontro
con l’Eterno.
Vieni Gesù!

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RIUNIONE DEL CONSIGLIO
PASTORALE PARROCCHIALE del 20.10 2003
Il Consiglio Pastorale Parrocchiale si è riunito, per la prima
seduta, dopo la pausa estiva, lunedì 20 ottobre scorso.
Come consuetudine la prima parte dell’incontro è dedicata
ad un momento formativo che, quest’anno, consiste nella lettura/commento
del testo “MI SARETE TESTIMONI” percorso pastorale diocesano
per il triennio 2003-2006 scritto dal Card. Dionigi Tettamanzi.
Ci si è soffermati sul primo capitolo: “COME MAI QUESTO TEMPO
NON SAPETE GIUDICARLO? Per un discernimento del tempo presente”
che, di seguito, viene sintetizzato.
Il Cardinale, partendo proprio dalle parole di Gesù “Ipocriti!
Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo
tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi
ciò che è giusto?” (Luca 12, 56-57), ci invita a discernere
il presente. E’ un invito a comprendere la realtà, a riconoscerla
ed interpretarla in profondità. In questo senso appare evidente
che una “semplice pastorale di conservazione”, oltre ad essere
sterile, si dimostra irresponsabile. Occorre il coraggio di aprirsi alla
novità con prudenza. La nostra “Chiesa di Milano è
viva, ricca di fede e ricolma di una straordinaria ricchezza di grazia….A
testimonianza di ciò le risorse spirituali e morali, le espressioni
di carità, l’impegno educativo degli oratori, la generosità
pastorale, l’attenzione ai non credenti, l’apertura all’Europa
e al mondo”. Se tutto questo è motivo di gioia, non possiamo
non riconoscere che questa vitalità di fede oggi è seriamente
minacciata.La fede appare come una realtà ripetitiva, stanca, adagiata,
priva di smalto, ripiegata su se stessa. Questo vale per tutti anche per
noi che siamo impegnati nella vita comunitaria.Già nel 1957 l’allora
Card. Montini affermava che “la maggior parte della popolazione…
non ha la fede viva, non la preghiera, non la conoscenza del catechismo,
non ha l’impegno della vita cristiana…” Eppure, oggi
sembra crescere la ricerca dell’esperienza religiosa, pensiamo al
fenomeno della New Age ed al proliferare di nuovi movimenti legati alle
tradizioni religiose soprattutto asiatiche. Viviamo, insomma, una situazione
contrassegnata da una spiccata ambivalenza. In realtà, il vissuto
di fede delle nostre comunità cristiane è certamente intaccato
dai noti fenomeni della secolarizzazione, di una vera e propria scristianizzazione,
dell’indifferenza religiosa, del “neopaganesimo”. Ma
non meno dal fatto che oggi la trasmissione della fede alle nuove generazioni
– pur rimanendo un impegno fondamentale della nostra Chiesa, per
il quale si moltiplicano gli sforzi pastorali e si tentano nuove vie –
si scontra con molte difficoltà nuove e pesanti. I “percorsi”
tradizionali di fede – che, fino a qualche decennio fa, erano socialmente
radicati nelle famiglie (es. recita del Rosario), nella scuola e in altri
ambienti di socializzazione – sono diventati sempre più “fragili”.
Molto spesso non si può presupporre quasi nulla riguardo l’educazione
cristiana dei ragazzi nelle famiglie di provenienza e non si può
certo pensare che sia l’ambiente sociale a favorirne l’educazione
cristiana. La fede viene ridotta a pura opinione soggettiva, perché
smarrisce il suo riferimento essenziale e fondativo a Gesù Cristo
come “verità oggettiva e vincolante” per ogni uomo
e per ogni situazione. La fede è vista come un peso e non come
un dono e un bene, non viene percepita ed apprezzata come il bene più
necessario e decisivo. Se è un peso non c’è gioia
e senza gioia ed entusiasmo non è possibile trasmettere la fede.
Il tutto si limita all’esercizio di una fede troppo “ritualistica”
troppo “formalistica” non come gioiosa ed impegnata risposta
di un amore personale all’amore di Dio per noi. Se cerchiamo le
radici delle attuali difficoltà e fatiche, le troviamo soprattutto
in precise motivazioni culturali. Viviamo in un contesto spesso impermeabile
al Vangelo, a esso “estraneo” o persino contrario.
E questo in seguito a molteplici fattori, quali: la generale “crisi
del processo comunicativo” nella nostra società; la diffusa
“tendenza ad assolutizzare l’attimo presente” smarrendo
il senso della storia, nel quale solo si può comprendere la “storia
della salvezza” e il singolare “fatto storico” di Gesù;
il “pluralismo” etnico-culturale-religioso che conduce a ritenere,
al più, che “una religione vale l’altra”; la
visione della persona in chiave unicamente naturalistica (es. centri del
benessere) e quindi negatrice della trascendenza. Come scriveva Tertulliano
“Cristiani non si nasce ma si diventa.”. E’ sempre stato
così, ma oggi il “diventare cristiani” si presenta
come un’impresa particolarmente ardua, difficile e faticosa. Lo
è in un modo tutto speciale nell’ambito della vita sociale,
nel quale si è consumata quella “rottura tra Vangelo e cultura”
che già Paolo VI ha denunciato come il dramma della nostra epoca.
Qui è più facilmente visibile l’irrilevanza sociale
dei cristiani, perché i criteri di giudizio e di scelta dominanti
nella cultura, nella mentalità e nel costume, non sono nella linea
del Vangelo e talvolta neppure in quella della stessa razionalità
umana. In questi casi, diventa più che comprensibile il giudizio
comune che qualifica i cristiani come “uguali agli altri e peggio
degli altri”. Si tratta di un giudizio che può diventare,
per chi lo pronuncia, anche un alibi per non confrontarsi con la proposta
del Vangelo, ma che rivela comunque come certi modi di pensare e di fare
dei cristiani non hanno proprio niente da dire agli uomini a al mondo
di oggi. Sono come il sale che non ha più sapore. Anche noi, singoli
cristiani e comunità ecclesiali siamo, ad esempio, caratterizzati
da poca comunione, da litigiosità, da mancanza di povertà
e di gratuità, da chiusure, indifferenze, sfiducia, pessimismo
e continua lamentosità. Ma ai cristiani è chiesto di vivere,
con sincero amore e vivo senso di responsabilità, il proprio tempo,
come una “comunità alternativa”. E sono davvero molti
gli esempi di singoli cristiani che si sforzano di impegnare la loro esistenza
nel costruire una storia secondo il Vangelo, che, nella semplicità
e nel nascondimento, testimoniano il Vangelo nell’ambito della famiglia,
del lavoro, della scuola, dello sport, della comunicazione sociale…
C’è qualcosa che rimane immutato e immutabile nel variare
dei tempi, delle circostanze e dei luoghi. Questo qualcosa è l’uomo,
con le domande di senso che porta dentro di sé e che riaffiorano
anche quando vengono compresse o addirittura negate. Immutato e immutabile
rimane, soprattutto, Gesù Cristo vero uomo e vero Dio che ci invita
a conversione e a nuova responsabilità. Nel dilagare delle novità
c’è, dunque, da rimanere fedeli alla tradizione che risale
alle origini, al vissuto della fede. C’è da affrontare senza
paura le difficoltà e le fatiche. C’è da affidarsi
con grande umiltà a Dio. Da tutto questo nasce il bisogno di un
risveglio missionario. E’ in questa precisa situazione storica che
noi cristiani siamo chiamati a vivere “da cristiani”, obbedendo
alla consegna missionaria di Gesù: comunicare il Vangelo, che libera
e salva, in un mondo che cambia.
L’approfondimento che ne è seguito, proprio partendo dall’affermazione
del Cardinale che giudica quasi nulla l’educazione cristiana dei
ragazzi, nelle famiglie di origine, ha dato vita ad una vivace discussione
circa l’opportunità di concedere il Sacramento del Battesimo
ai bambini figli di coppie conviventi e, quindi, non unite attraverso
il Sacramento del Matrimonio. Occorre fare chiarezza.
Innanzitutto: cos’è il Battesimo?
Il Battesimo è la ratifica di una scelta:
la scelta di seguire Cristo come maestro e Salvatore della propria persona
per questa vita e, soprattutto, per quella futura. Di conseguenza questa
scelta inserisce nella comunità cristiana, nella comunità
di tutti quelli che hanno fatto la stessa scelta: camminare insieme con
Cristo. Questo è il motivo per il quale i Battesimi vengono celebrati
durante la Santa Messa perché appunto sono un atto comunitario,
pubblico.
La scelta di Cristo implica precisi doveri ed obblighi. Questo discorso
appare chiaro per un adulto che chiede il Battesimo e compie, quindi,
una scelta consapevole. Nel caso dei bambini tutte queste condizioni sono
richieste ai genitori (vivere la fede personale, partecipare all'Eucarestia
domenicale, vivere i doveri della propria vocazione matrimoniale,…)
Questo è il minimo che la Chiesa chiede per concedere il Battesimo.
Nel caso di conviventi, sposati civilmente o divorziati “risposati”
si tratta di applicare la disciplina della Chiesa, che è chiara
e va conosciuta, senza cadere in soggettivismi perché la morale
è oggettiva, non dipende dalla singola persona.

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America Latina - Il 43% della popolazione
vive in condizioni di miseria Il drammatico
divario tra ricchi e poveri, in America Latina, è il più
ampio del pianeta. A sostenerlo - riferisce l’Agenzia missionaria
MISNA - è il presidente della Banca Interamericana per lo Sviluppo,
Enrique Iglesias. Questi sostiene che per superare la grave miseria che
segna ed affligge i Paesi della regione è urgente, in primo luogo,
dare vigoroso impulso alla crescita economica, adottando effettive politiche
di distribuzione delle entrate.
Nel suo intervento alla “Riunione di alto livello sulla povertà,
l’equità e l’inclusione sociale” promossa dall’Organizzazione
degli stati americani e conclusasi il 10 novembre in Venezuela, Iglesias
ha riferito che la Commissione Economica per l’America Latina ha
contato, nel 2002, ben 220 milioni di poveri in America Latina, cioè
il 43% della popolazione totale.
Dal canto suo, il Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani,
César Gaviria, ha sottolineato che la povertà rappresenta
la principale minaccia per la democrazia nella regione. Al contempo Gaviria
ha evidenziato che la miseria ha assunto dimensioni ancor più preoccupanti,
negli ultimi tempi, a causa della “incapacità” degli
Stati a rispondere alle esigenze primarie dei cittadini. La priorità
di gran parte dei Governi della regione, secondo Gaviria, è stata
innanzitutto quella di finanziare le infrastrutture e lo sviluppo delle
industrie di base, “dirottando” le risorse economiche dei
programmi sociali per destinarle al mantenimento dell’apparato burocratico.

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DALLA TUTA AL
SAIO: VOTI SOLENNI PER DUE OPERAI
BOLOGNA. Fino a quasi trent’anni
hanno indossato la tuta della fabbrica, nei giorni scorsi hanno abbracciato
definitivamente il saio francescano, con la professione di fede. I due
operai si chiamano Davide Coriani e Ivano Cavazzuti, hanno entrambi
36 anni e vengono da Roteglia un paese collinare di 2.500 abitanti.Davide
faceva il trasportatore, Ivano è il falegname.
Ivano racconta: Fino a 25 anni siamo sempre stati compagni di avventure,
sport e divertimenti. Il mio hobby era fare il dj nelle discoteche,
Davide era un patito dello sci e del ciclismo. Poi un giorno ci siamo
accorti che ci mancava qualcosa e ci siamo recati in pellegrinaggio
a San Martino di Schio, dove si diceva apparisse la Madonna. É
iniziata una ricerca di Dio che è durata 4 anni, affidandoci
alla Chiesa attraverso un gruppo di preghiera di Carpi ed alcuni sacerdoti.
Poi è arrivata la decisione di seguire il Signore sulle orme
di s. Francesco. Non è stato facile riprendere gli studi, però,
quando è al fede a motivare la vita, si ha una marcia in più
per superare qualsiasi ostacolo e arrivare al traguardo. Attualmente
i due frati stanno facendo anche esperienze pastorali in carcere e comunità
terapeutiche, con malati e ragazzi. Ivano proseguirà preparandosi
al sacerdozio. Andremo dove il Signore vorrà, con ubbidienza,
umiltà e povertà, tuffandoci nel mondo.

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MINISTERO DELLA
CARITA’ - Attività 2004
PERIODICAMENTE: I sacerdoti portano l’Eucaristia
agli ammalati
PERIODICAMENTE: Visita agli ammalati della nostra comunità
Ogni giovedì: centro di ascolto caritas
Aperto dalla 16.30 alle 17.30 presso l’Oratorio Maschile.
Sabato 31 gennaio - domenica 1° febbraio:
festa della vita (Gruppo familiare)
Vendita di primule per il “Centro di aiuto alla vita” della
clinica Mangiagalli dopo ogni celebrazione eucaristica sul sagrato della
chiesa parrocchiale.
Quaresima cena del povero (Associazione
Casa Betania)
A cena insieme, nell’attenzione verso i poveri, a favore dei missionari
origgesi.
Sabato 27 - Domenica 28 marzo: pasqua
solidale (Progetto Chernobyl)
Vendita di uova pasquali per l’accoglienza di ragazzi della Bielorussia
dopo ogni celebrazione eucaristica sul sagrato della chiesa parrocchiale.
Aprile: Santa pasqua (Caritas)
Visita agli origgesi ospitati nei diversi ricoveri e alla “Casa
san Giorgio”.
Mercoledì 7 aprile: s. messa pasquale
(Unitalsi)
Celebrazione dell’Eucaristia per gli ammalati, nel pomeriggio,
in parrocchia.
Domenica 18 aprile: quatar pass par i
alter (Oratori)
Marcia non competitiva a favore dei missionari origgesi.
Sabato 8 maggio: vestiti per i poveri
(Oratori)
Raccolta di vestiti usati a favore della Charitas Ambrosiana.
Sabato 19 - Domenica 20 giugno: auto pulite
(Oratori)
Lavaggio auto, iniziativa a favore dei missionari.
Settembre: ragazzi con noi (Progetto Chernobyl)
Accoglienza di un gruppo di ragazzi della Bielorussia presso le famiglie.
Venerdì 10 settembre: la festa
(Unitalsi)
Celebrazione dell’Eucaristia per gli ammalati, nel pomeriggio
in parrocchia.
Sabato 23 - Domenica 24 ottobre: bancarella
missionaria (Gruppo Missionario)
Vendita di prodotti vari, iniziativa a favore dei missionari.
Domenica 14 novembre: bancarella dolce
(Unitalsi)
Vendita di torte a favore delle iniziative del Gruppo rivolte ad ammalati
e anziani.
Sabato 5 - Mercoledì 8 dicembre:
bancarella di natale (Associazione Casa Betania)
Vendita di cesti natalizi ed altro a favore dei missionari origgesi.
Dicembre: Santo natale (Unitalsi, in collaborazione
con il Centro Anziani)
Visita agli origgesi ospitati nei diversi ricoveri a alla Casa san Giorgio.

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MORIRE
PER LA PELLE
Il caso di un ragazzo indiano che si è ucciso lasciando una lettera
accusatoria
Antony era un ragazzo indiano di 16 anni, adottato da una famiglia fiorentina
che per lui e sua sorella acquisita (una ragazza Tamil, anche lei adottata
all’età di 20 mesi) avevano venduto gli immobili in città
per trasferirsi ai piedi di uno dei colli più belli di Firenze,
in mezzo al verde. Ed è lì, nel luogo che più amava,
dove si sentiva protetto, che Antony si è tolto la vita. Come aveva
scritto in una lunga lettera preparata già da tempo: “Qui
ho vissuto gli unici momenti di gioia. Fuori mi sentivo un verme. Ogni
volta che uscivo di casa la gente non faceva altro che insultarmi per
il colore della mia pelle”. La sua rea un’età delicata,
un’età in cui si combatte per costruire la propria identità
e si tende ad ingrossare i problemi.
Si vedeva piccolo e brutto, voleva fare nuoto per irrobustirsi. Nell’età
in cui si perde tanto tempo davanti allo specchio, c’era chi non
gli faceva passare il colore un po’ più scuro della sua pelle:
alle scuole medie venne minacciato con un coltellino da altri ragazzi
che gli urlarono “sporco negro”. Una volta il bidello si affacciò
in classe per dire: “L’extracomunitario è desiderato
in presidenza”. C’è stata anche una professoressa che
cercò di spiegare ai genitori che “dopotutto i ragazzi tipo
Antony devono abituarsi a queste cose”. Il padre ha detto: “Antony
ci ha dato una lezione per tutti: ci vorrebbe più accettazione
della diversità. Spero che il gesto di mio figlio serva almeno
a far capire che non dobbiamo aver paura di aprire le nostre porte agli
altri”. E serva anche alla scuola, luogo in cui si dovrebbe educare.
ALCUNI PASSI DELLA LETTERA DI ANTONY
Spero che tutte queste difficoltà mi abbiano maturato per affrontare
il regno dei cieli, dove, spero, ci sia più fratellanza tra gli
umani.
Fuori di casa mi sentivo un verme; la gente non faceva altro che insultarmi
per il colore della pelle. Voglio dire al presidente Berlusconi che il
mondo potrà diventare pacifico solo se diventerà multietnico.
Solo quando rientravo ero il ragazzo più felice del mondo. Vi prego
quindi di non dare nessuna colpa ai miei genitori adottivi, perché
sono stati gli unici a volermi veramente bene e di questo li ringrazio
di cuore. Babbo, mamma, io non me ne sono andato perché non vi
volevo bene, solo che questo non era il mio tipo di vita. Non l’ho
fatto per punirvi, ma per liberarvi da un peso. Siete stati dei genitori
perfetti, non mi avete fatto mancare nulla. Non vi disperate troppo, perché
c’è la mia sorellina che dovete ancora tirare su e che dovete
aiutare nei momenti più difficili. Noi due non parlavamo molto,
ma so che lei mi voleva un monte di bene.

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NOI,
CRISTIANI DEL PAKISTAN, COL METAL DETETCOR IN CHIESA
Alle 7.48 del 9 agosto 2002 l’America aveva
già invaso l’Afghanistan e stava pianificando la guerra a
Saddam Hussein: Jamila Nobel e le altre infermiere tornavano tranquille
al lavoro dalla preghiera del mattino. Quattro di loro sono morte, ventisei
sono state ferite dalle schegge: Jamila ha perso il bambino. É
rimasta in coma per settimane, le colleghe hanno mandato la sua fotografia
a Roma, perché il Papa pregasse: sembrava spacciata. Più
di un anno dopo è di nuovo qui, indaffarata nel via vai della guardia
medica. Cammina a fatica, ma i grandi occhi scuri sono sereni, senza odio.
“Non ho paura - dice - e nemmeno rancore. Gesù ci aiuta a
superare tutte le prove”.
Hamida Williams, la vecchia caposala pure ferita nell’attentato,
l’accarezza con lo sguardo: “Il miracolo - sussurra - non
è che sia rimasta viva, ma che sia rimasta com’era: ha perdonato,
tutte l’abbiamo fatto. I musulmani sono nostri fratelli”.
A Taxila, Rawalpindi, Islamanbad o Lahore, il cristianesimo ha la forza
delle origini: sotto assedio, pieno di coraggio ostinato. “Sappiamo
di dover morire un giorno e siamo felici di morire in Cristo”, dice
ancora Hamida, scrutando senza convinzione le guardie che, dopo l’attacco,
sono state messe all’ingresso coi fucili, il cancello ormai sempre
sbarrato, il muro e il filo spinato lungo la Faisal Shaid Road. “Questo
posto era aperto a tutti, 24 ore al giorno. Ora stiamo chiusi dentro 24
ore al giorno, anche se abbiamo 500 pazienti in day hospital e 500 ricoverati,
anche se aiutiamo i poveri senza badare alla religione di nessuno”
dice, amaro, il direttore sanitario, Achchenaz Lall, che è protestante.
Cattolici e protestanti si mischiano nella cappella ancora sfregiata dalle
schegge, nell’ospedale (finanziato dalla Chiesa Presbiteriana) e
nel resto del Pakistan, stretti nella consapevolezza di essere un bersaglio
ogni volta che la tensione sale in questa fetta di mondo. “Siamo
ostaggi - sospira Anthony Lobo, vescovo di Rawalpindi -; i fondamentalisti
vedono solo bianco o nero. Per loro dire Stati Uniti equivale a dire cristiani.
E siccome siamo cristiani, ogni malefatta degli americani la fanno pagare
a noi”. Solo durante la campagna militare in Afghanistan gli attacchi
contro scuole o chiese cristiane sono stati undici. Infermiere, preti,
assistenti sociali, donne bambini: più di sessanta sono caduti
sotto il fuoco e le bombe degli estremisti islamici da due anni a oggi.
Andare a messa la domenica a Nostra Signora di Fatima è un po’
come entrare in un aeroporto dopo l’11 settembre. Davanti al cancello,
cinque poliziotti con mitra e fucili a pallettoni; chiunque deve passare
l’esame del metal detector: la fila è lenta, però
nessuno si scoraggia. Alle otto del mattino i fedeli gremiscono la chiesa,
cantando: “Signore, salvaci dai mali di questo mondo”. Quelli
che hanno un lavoro, fanno mestieri umili: sono spazzini, lavavetri, domestici
nelle case dei musulmani agiati. I loro genitori erano paria, intoccabili
della società induista, convertiti dai missionari al tempo della
dominazione inglese.
Sono tre milioni di anime in tutto il paese, circa il due per cento della
popolazione: “E ancora oggi non c’è un solo cristiano
ricco neanche a girare il Pakistan intero, né un industriale né
un ufficiale dell’esercito, né un giudice né un professionista:
la nostra gente parla dal fondo della scala”, spiega mons. Lobo.
Ancora più del piombo, qui fa paura la miseria.
Il parroco di Nostra Signora di Fatima, John Nevin, un irlandese di 66
anni, approdato a Islamabad ch’era poco più di un novizio,
dice: “Il pericolo c’è sempre, non si sa quando attaccheranno
ancora, ma non è questo il problema principale”. Il problema,
spiega, è la legge sulla blasfemia, introdotta negli anni Ottanta
dal gen. Zia ul Haq per guadagnare l’appoggio dei mullah. Tuttora
in vigore, nonostante le sbandierate aperture alla modernità, è
uno dei pochi esempi al mondo in cui il diritto penale prescinde dal dolo:
basta lasciar cadere a terra, per caso, per sbaglio, un Corano ed essere
accusati da almeno due musulmani osservanti, per rischiare, in teoria,
fino alla pena di morte. Lo scorso aprile un cristiano ha preso l’ergastolo
per aver strappato un cartellone con alcuni versetti del profeta.
In un disperato tentativo di far sentire la voce della sua comunità
a un Occidente distratto, il vescovo cattolico John Joseph si è
suicidato nel 1998 davanti al tribunale di Faisalabad. Ma l’Occidente
si gira sempre dall’altra parte. E la legge sulla blasfemia continua
ad essere usata, in via ordinaria, per spogliare i cristiani dei loro
(scarsi) averi.
Padre John racconta: “I padroni di casa se ne servono per cacciare
gli inquilini cristiani. Ricordo il caso di un cristiano accusato di scrivere
oscenità sul muro della moschea. Era analfabeta, ma l’accusatore
aveva una lunga barba da musulmano radicale: l’hanno condannato
senza pensarci due volte. La verità è che i nostri diritti
umani qui valgono poco o niente.
Sono testardi i cristiani di qui. “La domenica dopo la strage di
Bahawalpur, i fedeli a Messa erano raddoppiati, non riuscivo a crederci”,
ricorda mons. Lobo. Qualcuno ha smesso di uscire dopo il tramonto. La
maggioranza tuttavia dà del tu alla paura come a una vecchia compagna
di viaggio. Il direttore dll’ospedale di Taxila ha tre figli all’università.
“Vanno a Islamabad, prendono le corriere, sono cristiani come me.
Viviamo di crepacuore. Ma non dobbiamo fermarci”. L’orologio
della cappella lo contraddice: da 14 mesi è fermo sulle 7 e 48.
Il dottor Lalla mormora, con pudore, che “serve per ricordare”.
Ma dentro di sé lo sa, sente che per i cristiani del Pakistan la
storia è ancora immobile, come quelle due lancette bloccate da
una scheggia.
Goffredo Buccini, Corriere della Sera
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Cristo il
nostro povero di Madre Teresa di Calcutta
Discorso alle religiose, Milano, PIME, 19 ottobre 1973
Care sorelle, siamo qui per partecipare assieme
al dono di Dio, Cristo il nostro povero. I poveri sono speranza, i poveri
sono il nostro amore, i poveri sono il dono di Dio a noi. L’ultimo
giorno, quando saremo faccia a faccia con Dio, il Cristo ci chiederà
quanto amore avremo donato. Non ci chiederà quante cose avremo
fatto, ma quanto amore avremo messo nel nostro agire. Ci sono molte
persone povere: povere materialmente o spiritualmente. La povertà
spirituale che noi troviamo in Europa e in America è un peso
molto difficile: è molto difficoltoso portare l’amore di
Dio come segno a queste persone. Essere non-voluti, non-amati, senza
attenzione, essere soli, senza amici, è la più grande
malattia di oggi.
Le nostre suore fanno voto di dare liberamente e di cuore il loro servizio
ai più poveri dei poveri. Noi promettiamo di portare Cristo,
Gesù nell’affliggente maschera dei poveri. Il dare di tutto
cuore, in libero servizio, ci rende totalmente dipendenti dalla provvidenza
divina: noi diamo liberamente quello che liberamente abbiamo ricevuto.
Per poter capire la povertà dei poveri e chi sono i poveri, noi
scegliamo di vivere sperimentando questa povertà nella nostra
vita. Per questo la povertà nella nostra congregazione è
la nostra forza, la nostra libertà di andare al povero, di incontrarlo,
di arrivare a faccia a faccia con lui. Tutto il lavoro che la nostra
congregazione compie per i più poveri dei poveri, è un
frutto che viene dalla nostra unione con Dio. Cristo ha detto: Io sono
la vite e voi i tralci. É nei tralci che Cristo produce frutto,
a causa di questa unione dei tralci con la vite. La nostra vita di religiose
e la nostra vita spirituale sono una vita di preghiera e di dipendenza,
che dà come frutto il lavoro per i più poveri dei poveri:
sono il nostro amore di Dio in azione al servizio dei poveri.
Noi cerchiamo di ’pregare’ il lavoro, facendolo per Gesù,
in Gesù e verso Gesù. Il Signore Gesù ha detto:
Ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito,
ero ammalato e mi avete visitato, ero senza casa e mi avete dato una
casa. Tutta la congregazione, ovunque sia, deve fare solo questo: dar
da mangiare a Cristo, non solo con il pane, ma con l’amore e la
cura; dare asilo a Cristo, senza casa, non solo nella casa, ma anche
nel proprio cuore, nel proprio amore, nella comprensione, col portare
la pace; non solo con il dare i vestiti, ma rivestendo i poveri con
la propria compassione.
La nostra opera deve rimanere povera e facciamo un’umile cosa:
questo è il diritto della nostra congregazione. Il giorno in
cui diventassimo ricche e tralasciassimo il servizio dei più
poveri dei poveri, perderemmo il dono di Dio.
IL tema di questo incontro è: “I poveri sono speranza”.
Essi sono veramente la speranza del mondo, a causa del loro amore e
del loro coraggio. Essi sopportano, essi accettano la sofferenza, essi
fanno fatica nella vita. Tra loro ci sono magnifici esempi, essi sono
speranza, perché attraverso loro, compiendo il nostro lavoro
d’amore, noi giungiamo più vicini a Dio. Questo contatto
con i poveri è la dura fatica che forma le nostre suore nel loro
tirocinio: la gente è la cosa migliore per renderle diverse,
la povera gente ha insegnato a tutte noi un modo diverso di amare Dio,
nell’azione, nella sofferenza, facendo qualunque cosa fosse possibile
per risollevarsi.
La nostra vita religiosa è votata a Dio nel Santissimo Sacramento:
incominciamo sempre la nostra giornata con la Messa e la Santa Comunione
e la terminiamo con l’Adorazione; ogni giorno facciamo l’esposizione
del Santissimo Sacramento. Questo è stato deciso solo l’anno
scorso e ci siamo accorte che ha realmente cambiato la nostra vita,
ci ha reso più vicine l’una all’altra e ci ha dato
un amore più profondo a Cristo nei poveri, a Cristo nell’affliggente
maschera dei poveri; siamo arrivate a conoscerci meglio e a conoscere
meglio il povero. Attraverso il sacrificio dell’Eucaristia noi
siamo capaci di vivere la nostra vita di missionarie della carità:
una concreta testimonianza di Dio come amore, col vivere la vita eucaristica
nella messa e lungo il giorno nel servizio dei poveri terminando alla
sera con l’adorazione del Santissimo Sacramento.
Da quando abbiamo incominciato questa adorazione, non abbiamo diminuito
io nostro lavoro, diamo tutto il tempo di prima, ma con una maggiore
carica di amore e di comprensione. La gente ore riesce meglio ad accettarci,
perché è affamata di Dio, non ha bisogno di noi, ma di
Gesù. Nessuno al mondo può dare Gesù meglio di
noi religiose, perché noi apparteniamo a Lui. Per poter amare
i poveri, dobbiamo prima essere capaci di amarci reciprocamente nella
nostra comunità. Spesso riesce più facile sorrider fuori
della comunità, dove un sorriso ad un nostro vicino richiede
un duro sacrificio.
Recentemente, poco prima di lasciare l’India, sono venuti da noi
alcuni insegnanti dell’America e da Roma e mi hanno chiesto cosa
potevo suggerire loro per agire meglio e io ho risposto: “Sorridete
alle vostre mogli e permettete alle vostre mogli di sorridere a voi:
questo è spesso difficile”. E ad uno che mi chiedeva se
fossi sposata, ho risposto di sì, aggiungendo che talvolta mi
era difficile sorridere a Gesù. Noi religiose non abbiamo nessun
motivo per essere tristi, perché Cristo ha dato se stesso a noi
senza riserve e noi come risposta dobbiamo dare noi stesse a Lui attraverso
i voti, la vita di preghiera e di sacrificio. L’aspirazione della
nostra congregazione è di dissetare la sete di amore di Cristo
sulla Croce. Lo stile della congregazione è l’abbandono
totale a Dio, nell’amore fiducioso l’una per l’altra
e nel buonumore. Le nostre religiose lavorano in India, in Australia,
a New York, a Londra, a Roma, a Gaza, in Terra Santa, nello Yemen, ad
Amman, in Africa, in Venezuela, in Perù. Stiamo per andare in
Cambogia, per aiutare anche quella gente. Abbiamo anche 140 fratelli
laici e sei preti. Facciamo la stessa vita, lo stesso lavoro e abbiamo
bisogno di molta preghiera per essere capaci di continuare il lavoro
che Dio ci ha dato con grande amore. Il nostro lavoro sembra molto grande,
ma in se stesso non è così vasto come potrebbe far credere
il coinvolgimento di così tanta gente. Nel mondo molta altra
gente sta facendo un lavoro simile e con grande amore; così questo
amore concreto, questo amore di Dio in azione, si diffonde ogni giorno
di più nel mondo. E bello vedere la gente cercare di amarsi l’un
l’altro, come Cristo ha detto” Amatevi come io vi ho amati.
E così, tutti noi insieme, perché quello che state facendo
è indispensabile ala Chiesa; la vera necessità è
che rimaniamo fedeli alla grande chiamata che Dio ci ha rivolto, quella
di essere sua proprietà. Abbiamo case per handicappati, per bambini
non voluti e abbandonati, ci prendiamo cura dei lebbrosi; abbiamo piccole
scuole, centri di cucito a altre iniziative simili per aiutare i poveri
a migliorare la condizione loro e delle loro famiglie., delle quali
ci preoccupiamo moltissimo e che qui possono riunirsi, stare assieme
e volersi bene reciprocamente.
A Calcutta abbiamo una casa per moribondi vicino al tempio della dea
Kali, dove in 21 anni abbiamo condotto, raccogliendoli dalle strade,
27.000 moribondi, di cui 13.000 sono morti serenamente in Dio. Ricordo
di aver raccolto un giorno un uomo per la strada che mi disse: “Sono
vissuto come un animale nella strada, ma ora vado a morire come un angelo
nell’amore e nella premura delle suore”. Ed è veramente
morto come n angelo, serenamente. Tutti muoiono con Dio.

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