Marzo 2002
Ottobre 2002
Dicembre 2002
Speciale 2002
Marzo 2003
Aprile 2003
Giugno 2003
Settembre 2003
Novembre 2003
Marzo 2004
Maggio 2004

 

DICEMBRE 2003

NASIRIYAH

Don Pierangelo - Sul Natale
Preghiera per l’Avvento
Preghiera per il Natale
Verbale Consiglio Pastorale
Povertà in America Latina
Dalla tuta al saio: voti solenni per due operai
Ministero della Carità - Appuntamenti 2004
Morire per la pelle: il caso di un ragazzo indiano
Cristiani in Pakistan
Madre Teresa di Calcutta: Cristo il nostro povero


NASIRIYAH

Nel nome di Dio
di Colui che ha donato la vita
di Colui che ha voluto ogni vita
di Colui che ama ogni uomo
Nel nome di Gesù Re della Pace
di Gesù unico Salvatore,

facciamo memoria di quelli che sono morti,
corpi lacerati, squartati, sfigurati
e disprezzati come rifiuti maleodoranti,
uomini cancellati dalla faccia della terra,
uomini deturpati nella loro bellezza,
persone calpestate nella dignità,
figli dell’Altissimo, uccisi dal fratello Caino.

A questi che non sono più,
che hanno varcato le porte dell’eternità,
che contemplano il Volto splendente
dell’Eterno, fonte della Vita,
pace, riposo e gioia siano donati.

Fratelli, vittime della violenza,
della guerra, del terrorismo,
della vendetta e di ogni sorta di male,
voi che siete l’olocausto dell’assurdo,
voi che avete versato sangue innocente,
voi che ora siete testimoni di una vita piena,
gridate nel silenzio a tutti gli uomini
la via della Pace,
perché la bellezza della vita e la sua verità
siano comprese e accolte da tutti nella pace.

Il Dio della Pace, il Re della Pace,
Gesù nostro Salvatore,
regni nel cuore di ogni uomo.

don Pierangelo


SUL NATALE

Carissimi fratelli e sorelle,
shalom, cioè pace e benedizione a voi, alle vostre famiglie, ai vostri figli, ai vostri anziani, e specialmente ai più dimenticati della Parrocchia, perché ammalati, soli o lasciati ai margini da noi che non abbiamo mai tempo e amore da donare a loro.
Tutti vogliono essere amati, accolti, ben visti, ma forse pochi tra noi sanno vivere il comandamento del Dio fatto uomo, Gesù Cristo, cioè l’insegnamento e la testimonianza di un amore che si dona.
Mi sono chiesto che cosa volesse dire per me prete celebrare il Natale. La risposta l’ho trovata nella mia vocazione; chiamata alla vita, chiamata alla vita cristiana, chiamata al ministero sacerdotale per la santa Chiesa e per l’intera umanità. Chiamata che fa riferimento a una verità oggettiva e vincolante, a una Persona, a Gesù Cristo vero uomo, vero Dio, che ha svelato la grandezza, la bellezza, il valore della vita in Dio. In Lui ho trovato il senso della vita e il dono della vita, perché Lui è Vita e Amore.
Natale è Natale di Gesù, è Natale di Dio che visita l’umanità per ricrearla e trasfigurarla in vita divina di amore eterno.
Dio Padre, fonte della Vita e dell’Amore che si dona, ci ha donato suo Figlio, il Verbo della Vita, rivelazione dell’Amore increato e della Bellezza incomparabile e noi stessi siamo rivelazione e testimonianza di Lui, Eterno ingenerato che ci ha chiamati alla vita, perché lo annunciassimo e lo facessimo conoscere ai vicini, ai lontani, ai parenti, agli amici, ai dubbiosi, agli indifferenti, a tutti. Il Figlio suo Gesù è il Dono più grande del suo Amore, della sua vicinanza, della sua benevolenza e della sua benedizione.
A Gesù dobbiamo tutto, perché tramite Lui tutto abbiamo ricevuto dal Padre: la vita, gli affetti, l’amore, la compassione, la condivisione, il sostegno, la perseveranza, la speranza ultraterrena della luce eterna, la salvezza della vita stessa.
In Lui viviamo,
in Lui amiamo,
il Lui confidiamo,
in Lui speriamo,
a Lui ci doniamo,
per Lui doniamo tutti noi stessi ai fratelli,
e tra loro i primi siano
quelli che bussano alla porta del nostro cuore,
chiedendo aiuto, comprensione,
sorriso, benevolenza, tenerezza e perdono.
É Gesù stesso che bussa alla porta
e allora apriamogli con fiducia,
perché ora ha bisogno di noi.

A tutti auguro il Natale di Gesù
perché Lui sia accolto come Persona amica, il Salvatore,
e perché Lui sia accolto nel fratello che bussa alla porta.


don Pierangelo


AVVENTO 2003

Che mi darai
o Dio alla fine di questo giorno
quando gli occhi si spegneranno
le orecchie si chiuderanno
e la lingua tacerà?
Che mi darai
o Dio quando la morte arriverà
e mi porterà alla Tua Presenza
perché la vita sia giudicata?
Nulla merito
nulla pretendo
nulla chiedo
se non la Tua compassione
affinché il male
non fugato
anzi vilmente cercato
sia dissolto dalla Luce
tua fulgida
che vince le tenebre.
O Dio buono,
sommamente buono
l’Unico che sa amare
senza chiedere
a Te consegno
il mio gretto cuore che ti ha tradito
venduto e umiliato.
Questo cuore
Tu lo puoi sanare
Tu lo puoi inondare di luce
Tu lo puoi santificare
unendolo strettamente a Te
che lo hai creato per Te
perché sia eternamente con Te.

Vieni Gesù!


NATALE 2003

Dolce Gesù
Figlio del Compassionevole
Figlio del Misericordioso
Figlio del Padre
figlio di Maria
figlio della Madre Santa
obbediente
amorosa
figlio adottivo del giusto Giuseppe
padre e custode
premuroso,
mistero dell’Incarnazione
di Dio che si fa uomo
umile
povero
debole
nascosto agli uomini,
Epifania di Dio
sei per noi
la Presenza vicina
la Bellezza incomparabile
la Verità inafferrabile
la Luce sfolgorante
la Mano divina
che accompagna
accarezza
sostiene
consola
corregge
e indica la meta
il termine
la casa della comunione
dell’Incontro
con l’Eterno.

Vieni Gesù!


RIUNIONE DEL CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE del 20.10 2003

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale si è riunito, per la prima seduta, dopo la pausa estiva, lunedì 20 ottobre scorso.
Come consuetudine la prima parte dell’incontro è dedicata ad un momento formativo che, quest’anno, consiste nella lettura/commento del testo “MI SARETE TESTIMONI” percorso pastorale diocesano per il triennio 2003-2006 scritto dal Card. Dionigi Tettamanzi.
Ci si è soffermati sul primo capitolo: “COME MAI QUESTO TEMPO NON SAPETE GIUDICARLO? Per un discernimento del tempo presente” che, di seguito, viene sintetizzato.
Il Cardinale, partendo proprio dalle parole di Gesù “Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12, 56-57), ci invita a discernere il presente. E’ un invito a comprendere la realtà, a riconoscerla ed interpretarla in profondità. In questo senso appare evidente che una “semplice pastorale di conservazione”, oltre ad essere sterile, si dimostra irresponsabile. Occorre il coraggio di aprirsi alla novità con prudenza. La nostra “Chiesa di Milano è viva, ricca di fede e ricolma di una straordinaria ricchezza di grazia….A testimonianza di ciò le risorse spirituali e morali, le espressioni di carità, l’impegno educativo degli oratori, la generosità pastorale, l’attenzione ai non credenti, l’apertura all’Europa e al mondo”. Se tutto questo è motivo di gioia, non possiamo non riconoscere che questa vitalità di fede oggi è seriamente minacciata.La fede appare come una realtà ripetitiva, stanca, adagiata, priva di smalto, ripiegata su se stessa. Questo vale per tutti anche per noi che siamo impegnati nella vita comunitaria.Già nel 1957 l’allora Card. Montini affermava che “la maggior parte della popolazione… non ha la fede viva, non la preghiera, non la conoscenza del catechismo, non ha l’impegno della vita cristiana…” Eppure, oggi sembra crescere la ricerca dell’esperienza religiosa, pensiamo al fenomeno della New Age ed al proliferare di nuovi movimenti legati alle tradizioni religiose soprattutto asiatiche. Viviamo, insomma, una situazione contrassegnata da una spiccata ambivalenza. In realtà, il vissuto di fede delle nostre comunità cristiane è certamente intaccato dai noti fenomeni della secolarizzazione, di una vera e propria scristianizzazione, dell’indifferenza religiosa, del “neopaganesimo”. Ma non meno dal fatto che oggi la trasmissione della fede alle nuove generazioni – pur rimanendo un impegno fondamentale della nostra Chiesa, per il quale si moltiplicano gli sforzi pastorali e si tentano nuove vie – si scontra con molte difficoltà nuove e pesanti. I “percorsi” tradizionali di fede – che, fino a qualche decennio fa, erano socialmente radicati nelle famiglie (es. recita del Rosario), nella scuola e in altri ambienti di socializzazione – sono diventati sempre più “fragili”. Molto spesso non si può presupporre quasi nulla riguardo l’educazione cristiana dei ragazzi nelle famiglie di provenienza e non si può certo pensare che sia l’ambiente sociale a favorirne l’educazione cristiana. La fede viene ridotta a pura opinione soggettiva, perché smarrisce il suo riferimento essenziale e fondativo a Gesù Cristo come “verità oggettiva e vincolante” per ogni uomo e per ogni situazione. La fede è vista come un peso e non come un dono e un bene, non viene percepita ed apprezzata come il bene più necessario e decisivo. Se è un peso non c’è gioia e senza gioia ed entusiasmo non è possibile trasmettere la fede. Il tutto si limita all’esercizio di una fede troppo “ritualistica” troppo “formalistica” non come gioiosa ed impegnata risposta di un amore personale all’amore di Dio per noi. Se cerchiamo le radici delle attuali difficoltà e fatiche, le troviamo soprattutto in precise motivazioni culturali. Viviamo in un contesto spesso impermeabile al Vangelo, a esso “estraneo” o persino contrario.
E questo in seguito a molteplici fattori, quali: la generale “crisi del processo comunicativo” nella nostra società; la diffusa “tendenza ad assolutizzare l’attimo presente” smarrendo il senso della storia, nel quale solo si può comprendere la “storia della salvezza” e il singolare “fatto storico” di Gesù; il “pluralismo” etnico-culturale-religioso che conduce a ritenere, al più, che “una religione vale l’altra”; la visione della persona in chiave unicamente naturalistica (es. centri del benessere) e quindi negatrice della trascendenza. Come scriveva Tertulliano “Cristiani non si nasce ma si diventa.”. E’ sempre stato così, ma oggi il “diventare cristiani” si presenta come un’impresa particolarmente ardua, difficile e faticosa. Lo è in un modo tutto speciale nell’ambito della vita sociale, nel quale si è consumata quella “rottura tra Vangelo e cultura” che già Paolo VI ha denunciato come il dramma della nostra epoca. Qui è più facilmente visibile l’irrilevanza sociale dei cristiani, perché i criteri di giudizio e di scelta dominanti nella cultura, nella mentalità e nel costume, non sono nella linea del Vangelo e talvolta neppure in quella della stessa razionalità umana. In questi casi, diventa più che comprensibile il giudizio comune che qualifica i cristiani come “uguali agli altri e peggio degli altri”. Si tratta di un giudizio che può diventare, per chi lo pronuncia, anche un alibi per non confrontarsi con la proposta del Vangelo, ma che rivela comunque come certi modi di pensare e di fare dei cristiani non hanno proprio niente da dire agli uomini a al mondo di oggi. Sono come il sale che non ha più sapore. Anche noi, singoli cristiani e comunità ecclesiali siamo, ad esempio, caratterizzati da poca comunione, da litigiosità, da mancanza di povertà e di gratuità, da chiusure, indifferenze, sfiducia, pessimismo e continua lamentosità. Ma ai cristiani è chiesto di vivere, con sincero amore e vivo senso di responsabilità, il proprio tempo, come una “comunità alternativa”. E sono davvero molti gli esempi di singoli cristiani che si sforzano di impegnare la loro esistenza nel costruire una storia secondo il Vangelo, che, nella semplicità e nel nascondimento, testimoniano il Vangelo nell’ambito della famiglia, del lavoro, della scuola, dello sport, della comunicazione sociale… C’è qualcosa che rimane immutato e immutabile nel variare dei tempi, delle circostanze e dei luoghi. Questo qualcosa è l’uomo, con le domande di senso che porta dentro di sé e che riaffiorano anche quando vengono compresse o addirittura negate. Immutato e immutabile rimane, soprattutto, Gesù Cristo vero uomo e vero Dio che ci invita a conversione e a nuova responsabilità. Nel dilagare delle novità c’è, dunque, da rimanere fedeli alla tradizione che risale alle origini, al vissuto della fede. C’è da affrontare senza paura le difficoltà e le fatiche. C’è da affidarsi con grande umiltà a Dio. Da tutto questo nasce il bisogno di un risveglio missionario. E’ in questa precisa situazione storica che noi cristiani siamo chiamati a vivere “da cristiani”, obbedendo alla consegna missionaria di Gesù: comunicare il Vangelo, che libera e salva, in un mondo che cambia.
L’approfondimento che ne è seguito, proprio partendo dall’affermazione del Cardinale che giudica quasi nulla l’educazione cristiana dei ragazzi, nelle famiglie di origine, ha dato vita ad una vivace discussione circa l’opportunità di concedere il Sacramento del Battesimo ai bambini figli di coppie conviventi e, quindi, non unite attraverso il Sacramento del Matrimonio. Occorre fare chiarezza.
Innanzitutto: cos’è il Battesimo?

Il Battesimo è la ratifica di una scelta: la scelta di seguire Cristo come maestro e Salvatore della propria persona per questa vita e, soprattutto, per quella futura. Di conseguenza questa scelta inserisce nella comunità cristiana, nella comunità di tutti quelli che hanno fatto la stessa scelta: camminare insieme con Cristo. Questo è il motivo per il quale i Battesimi vengono celebrati durante la Santa Messa perché appunto sono un atto comunitario, pubblico.
La scelta di Cristo implica precisi doveri ed obblighi. Questo discorso appare chiaro per un adulto che chiede il Battesimo e compie, quindi, una scelta consapevole. Nel caso dei bambini tutte queste condizioni sono richieste ai genitori (vivere la fede personale, partecipare all'Eucarestia domenicale, vivere i doveri della propria vocazione matrimoniale,…) Questo è il minimo che la Chiesa chiede per concedere il Battesimo.
Nel caso di conviventi, sposati civilmente o divorziati “risposati” si tratta di applicare la disciplina della Chiesa, che è chiara e va conosciuta, senza cadere in soggettivismi perché la morale è oggettiva, non dipende dalla singola persona.


America Latina - Il 43% della popolazione vive in condizioni di miseria

Il drammatico divario tra ricchi e poveri, in America Latina, è il più ampio del pianeta. A sostenerlo - riferisce l’Agenzia missionaria MISNA - è il presidente della Banca Interamericana per lo Sviluppo, Enrique Iglesias. Questi sostiene che per superare la grave miseria che segna ed affligge i Paesi della regione è urgente, in primo luogo, dare vigoroso impulso alla crescita economica, adottando effettive politiche di distribuzione delle entrate.
Nel suo intervento alla “Riunione di alto livello sulla povertà, l’equità e l’inclusione sociale” promossa dall’Organizzazione degli stati americani e conclusasi il 10 novembre in Venezuela, Iglesias ha riferito che la Commissione Economica per l’America Latina ha contato, nel 2002, ben 220 milioni di poveri in America Latina, cioè il 43% della popolazione totale.
Dal canto suo, il Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani, César Gaviria, ha sottolineato che la povertà rappresenta la principale minaccia per la democrazia nella regione. Al contempo Gaviria ha evidenziato che la miseria ha assunto dimensioni ancor più preoccupanti, negli ultimi tempi, a causa della “incapacità” degli Stati a rispondere alle esigenze primarie dei cittadini. La priorità di gran parte dei Governi della regione, secondo Gaviria, è stata innanzitutto quella di finanziare le infrastrutture e lo sviluppo delle industrie di base, “dirottando” le risorse economiche dei programmi sociali per destinarle al mantenimento dell’apparato burocratico.


DALLA TUTA AL SAIO: VOTI SOLENNI PER DUE OPERAI

BOLOGNA. Fino a quasi trent’anni hanno indossato la tuta della fabbrica, nei giorni scorsi hanno abbracciato definitivamente il saio francescano, con la professione di fede. I due operai si chiamano Davide Coriani e Ivano Cavazzuti, hanno entrambi 36 anni e vengono da Roteglia un paese collinare di 2.500 abitanti.Davide faceva il trasportatore, Ivano è il falegname.
Ivano racconta: Fino a 25 anni siamo sempre stati compagni di avventure, sport e divertimenti. Il mio hobby era fare il dj nelle discoteche, Davide era un patito dello sci e del ciclismo. Poi un giorno ci siamo accorti che ci mancava qualcosa e ci siamo recati in pellegrinaggio a San Martino di Schio, dove si diceva apparisse la Madonna. É iniziata una ricerca di Dio che è durata 4 anni, affidandoci alla Chiesa attraverso un gruppo di preghiera di Carpi ed alcuni sacerdoti. Poi è arrivata la decisione di seguire il Signore sulle orme di s. Francesco. Non è stato facile riprendere gli studi, però, quando è al fede a motivare la vita, si ha una marcia in più per superare qualsiasi ostacolo e arrivare al traguardo. Attualmente i due frati stanno facendo anche esperienze pastorali in carcere e comunità terapeutiche, con malati e ragazzi. Ivano proseguirà preparandosi al sacerdozio. Andremo dove il Signore vorrà, con ubbidienza, umiltà e povertà, tuffandoci nel mondo.


MINISTERO DELLA CARITA’ - Attività 2004


PERIODICAMENTE: I sacerdoti portano l’Eucaristia agli ammalati
PERIODICAMENTE: Visita agli ammalati della nostra comunità
Ogni giovedì: centro di ascolto caritas
Aperto dalla 16.30 alle 17.30 presso l’Oratorio Maschile.


Sabato 31 gennaio - domenica 1° febbraio: festa della vita (Gruppo familiare)
Vendita di primule per il “Centro di aiuto alla vita” della clinica Mangiagalli dopo ogni celebrazione eucaristica sul sagrato della chiesa parrocchiale.
Quaresima cena del povero (Associazione Casa Betania)
A cena insieme, nell’attenzione verso i poveri, a favore dei missionari origgesi.
Sabato 27 - Domenica 28 marzo: pasqua solidale (Progetto Chernobyl)
Vendita di uova pasquali per l’accoglienza di ragazzi della Bielorussia
dopo ogni celebrazione eucaristica sul sagrato della chiesa parrocchiale.
Aprile: Santa pasqua (Caritas)
Visita agli origgesi ospitati nei diversi ricoveri e alla “Casa san Giorgio”.
Mercoledì 7 aprile: s. messa pasquale (Unitalsi)
Celebrazione dell’Eucaristia per gli ammalati, nel pomeriggio, in parrocchia.
Domenica 18 aprile: quatar pass par i alter (Oratori)
Marcia non competitiva a favore dei missionari origgesi.
Sabato 8 maggio: vestiti per i poveri (Oratori)
Raccolta di vestiti usati a favore della Charitas Ambrosiana.
Sabato 19 - Domenica 20 giugno: auto pulite (Oratori)
Lavaggio auto, iniziativa a favore dei missionari.
Settembre: ragazzi con noi (Progetto Chernobyl)
Accoglienza di un gruppo di ragazzi della Bielorussia presso le famiglie.
Venerdì 10 settembre: la festa (Unitalsi)
Celebrazione dell’Eucaristia per gli ammalati, nel pomeriggio in parrocchia.
Sabato 23 - Domenica 24 ottobre: bancarella missionaria (Gruppo Missionario)
Vendita di prodotti vari, iniziativa a favore dei missionari.
Domenica 14 novembre: bancarella dolce (Unitalsi)
Vendita di torte a favore delle iniziative del Gruppo rivolte ad ammalati e anziani.
Sabato 5 - Mercoledì 8 dicembre: bancarella di natale (Associazione Casa Betania)
Vendita di cesti natalizi ed altro a favore dei missionari origgesi.
Dicembre: Santo natale (Unitalsi, in collaborazione con il Centro Anziani)
Visita agli origgesi ospitati nei diversi ricoveri a alla Casa san Giorgio.


MORIRE PER LA PELLE
Il caso di un ragazzo indiano che si è ucciso lasciando una lettera accusatoria
Antony era un ragazzo indiano di 16 anni, adottato da una famiglia fiorentina che per lui e sua sorella acquisita (una ragazza Tamil, anche lei adottata all’età di 20 mesi) avevano venduto gli immobili in città per trasferirsi ai piedi di uno dei colli più belli di Firenze, in mezzo al verde. Ed è lì, nel luogo che più amava, dove si sentiva protetto, che Antony si è tolto la vita. Come aveva scritto in una lunga lettera preparata già da tempo: “Qui ho vissuto gli unici momenti di gioia. Fuori mi sentivo un verme. Ogni volta che uscivo di casa la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della mia pelle”. La sua rea un’età delicata, un’età in cui si combatte per costruire la propria identità e si tende ad ingrossare i problemi.
Si vedeva piccolo e brutto, voleva fare nuoto per irrobustirsi. Nell’età in cui si perde tanto tempo davanti allo specchio, c’era chi non gli faceva passare il colore un po’ più scuro della sua pelle: alle scuole medie venne minacciato con un coltellino da altri ragazzi che gli urlarono “sporco negro”. Una volta il bidello si affacciò in classe per dire: “L’extracomunitario è desiderato in presidenza”. C’è stata anche una professoressa che cercò di spiegare ai genitori che “dopotutto i ragazzi tipo Antony devono abituarsi a queste cose”. Il padre ha detto: “Antony ci ha dato una lezione per tutti: ci vorrebbe più accettazione della diversità. Spero che il gesto di mio figlio serva almeno a far capire che non dobbiamo aver paura di aprire le nostre porte agli altri”. E serva anche alla scuola, luogo in cui si dovrebbe educare.


ALCUNI PASSI DELLA LETTERA DI ANTONY
Spero che tutte queste difficoltà mi abbiano maturato per affrontare il regno dei cieli, dove, spero, ci sia più fratellanza tra gli umani.
Fuori di casa mi sentivo un verme; la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della pelle. Voglio dire al presidente Berlusconi che il mondo potrà diventare pacifico solo se diventerà multietnico. Solo quando rientravo ero il ragazzo più felice del mondo. Vi prego quindi di non dare nessuna colpa ai miei genitori adottivi, perché sono stati gli unici a volermi veramente bene e di questo li ringrazio di cuore. Babbo, mamma, io non me ne sono andato perché non vi volevo bene, solo che questo non era il mio tipo di vita. Non l’ho fatto per punirvi, ma per liberarvi da un peso. Siete stati dei genitori perfetti, non mi avete fatto mancare nulla. Non vi disperate troppo, perché c’è la mia sorellina che dovete ancora tirare su e che dovete aiutare nei momenti più difficili. Noi due non parlavamo molto, ma so che lei mi voleva un monte di bene.


NOI, CRISTIANI DEL PAKISTAN, COL METAL DETETCOR IN CHIESA

Alle 7.48 del 9 agosto 2002 l’America aveva già invaso l’Afghanistan e stava pianificando la guerra a Saddam Hussein: Jamila Nobel e le altre infermiere tornavano tranquille al lavoro dalla preghiera del mattino. Quattro di loro sono morte, ventisei sono state ferite dalle schegge: Jamila ha perso il bambino. É rimasta in coma per settimane, le colleghe hanno mandato la sua fotografia a Roma, perché il Papa pregasse: sembrava spacciata. Più di un anno dopo è di nuovo qui, indaffarata nel via vai della guardia medica. Cammina a fatica, ma i grandi occhi scuri sono sereni, senza odio. “Non ho paura - dice - e nemmeno rancore. Gesù ci aiuta a superare tutte le prove”.
Hamida Williams, la vecchia caposala pure ferita nell’attentato, l’accarezza con lo sguardo: “Il miracolo - sussurra - non è che sia rimasta viva, ma che sia rimasta com’era: ha perdonato, tutte l’abbiamo fatto. I musulmani sono nostri fratelli”. A Taxila, Rawalpindi, Islamanbad o Lahore, il cristianesimo ha la forza delle origini: sotto assedio, pieno di coraggio ostinato. “Sappiamo di dover morire un giorno e siamo felici di morire in Cristo”, dice ancora Hamida, scrutando senza convinzione le guardie che, dopo l’attacco, sono state messe all’ingresso coi fucili, il cancello ormai sempre sbarrato, il muro e il filo spinato lungo la Faisal Shaid Road. “Questo posto era aperto a tutti, 24 ore al giorno. Ora stiamo chiusi dentro 24 ore al giorno, anche se abbiamo 500 pazienti in day hospital e 500 ricoverati, anche se aiutiamo i poveri senza badare alla religione di nessuno” dice, amaro, il direttore sanitario, Achchenaz Lall, che è protestante. Cattolici e protestanti si mischiano nella cappella ancora sfregiata dalle schegge, nell’ospedale (finanziato dalla Chiesa Presbiteriana) e nel resto del Pakistan, stretti nella consapevolezza di essere un bersaglio ogni volta che la tensione sale in questa fetta di mondo. “Siamo ostaggi - sospira Anthony Lobo, vescovo di Rawalpindi -; i fondamentalisti vedono solo bianco o nero. Per loro dire Stati Uniti equivale a dire cristiani. E siccome siamo cristiani, ogni malefatta degli americani la fanno pagare a noi”. Solo durante la campagna militare in Afghanistan gli attacchi contro scuole o chiese cristiane sono stati undici. Infermiere, preti, assistenti sociali, donne bambini: più di sessanta sono caduti sotto il fuoco e le bombe degli estremisti islamici da due anni a oggi.
Andare a messa la domenica a Nostra Signora di Fatima è un po’ come entrare in un aeroporto dopo l’11 settembre. Davanti al cancello, cinque poliziotti con mitra e fucili a pallettoni; chiunque deve passare l’esame del metal detector: la fila è lenta, però nessuno si scoraggia. Alle otto del mattino i fedeli gremiscono la chiesa, cantando: “Signore, salvaci dai mali di questo mondo”. Quelli che hanno un lavoro, fanno mestieri umili: sono spazzini, lavavetri, domestici nelle case dei musulmani agiati. I loro genitori erano paria, intoccabili della società induista, convertiti dai missionari al tempo della dominazione inglese.
Sono tre milioni di anime in tutto il paese, circa il due per cento della popolazione: “E ancora oggi non c’è un solo cristiano ricco neanche a girare il Pakistan intero, né un industriale né un ufficiale dell’esercito, né un giudice né un professionista: la nostra gente parla dal fondo della scala”, spiega mons. Lobo. Ancora più del piombo, qui fa paura la miseria.
Il parroco di Nostra Signora di Fatima, John Nevin, un irlandese di 66 anni, approdato a Islamabad ch’era poco più di un novizio, dice: “Il pericolo c’è sempre, non si sa quando attaccheranno ancora, ma non è questo il problema principale”. Il problema, spiega, è la legge sulla blasfemia, introdotta negli anni Ottanta dal gen. Zia ul Haq per guadagnare l’appoggio dei mullah. Tuttora in vigore, nonostante le sbandierate aperture alla modernità, è uno dei pochi esempi al mondo in cui il diritto penale prescinde dal dolo: basta lasciar cadere a terra, per caso, per sbaglio, un Corano ed essere accusati da almeno due musulmani osservanti, per rischiare, in teoria, fino alla pena di morte. Lo scorso aprile un cristiano ha preso l’ergastolo per aver strappato un cartellone con alcuni versetti del profeta.
In un disperato tentativo di far sentire la voce della sua comunità a un Occidente distratto, il vescovo cattolico John Joseph si è suicidato nel 1998 davanti al tribunale di Faisalabad. Ma l’Occidente si gira sempre dall’altra parte. E la legge sulla blasfemia continua ad essere usata, in via ordinaria, per spogliare i cristiani dei loro (scarsi) averi.
Padre John racconta: “I padroni di casa se ne servono per cacciare gli inquilini cristiani. Ricordo il caso di un cristiano accusato di scrivere oscenità sul muro della moschea. Era analfabeta, ma l’accusatore aveva una lunga barba da musulmano radicale: l’hanno condannato senza pensarci due volte. La verità è che i nostri diritti umani qui valgono poco o niente.
Sono testardi i cristiani di qui. “La domenica dopo la strage di Bahawalpur, i fedeli a Messa erano raddoppiati, non riuscivo a crederci”, ricorda mons. Lobo. Qualcuno ha smesso di uscire dopo il tramonto. La maggioranza tuttavia dà del tu alla paura come a una vecchia compagna di viaggio. Il direttore dll’ospedale di Taxila ha tre figli all’università. “Vanno a Islamabad, prendono le corriere, sono cristiani come me. Viviamo di crepacuore. Ma non dobbiamo fermarci”. L’orologio della cappella lo contraddice: da 14 mesi è fermo sulle 7 e 48. Il dottor Lalla mormora, con pudore, che “serve per ricordare”. Ma dentro di sé lo sa, sente che per i cristiani del Pakistan la storia è ancora immobile, come quelle due lancette bloccate da una scheggia.


Goffredo Buccini, Corriere della Sera


Cristo il nostro povero di Madre Teresa di Calcutta
Discorso alle religiose, Milano, PIME, 19 ottobre 1973

Care sorelle, siamo qui per partecipare assieme al dono di Dio, Cristo il nostro povero. I poveri sono speranza, i poveri sono il nostro amore, i poveri sono il dono di Dio a noi. L’ultimo giorno, quando saremo faccia a faccia con Dio, il Cristo ci chiederà quanto amore avremo donato. Non ci chiederà quante cose avremo fatto, ma quanto amore avremo messo nel nostro agire. Ci sono molte persone povere: povere materialmente o spiritualmente. La povertà spirituale che noi troviamo in Europa e in America è un peso molto difficile: è molto difficoltoso portare l’amore di Dio come segno a queste persone. Essere non-voluti, non-amati, senza attenzione, essere soli, senza amici, è la più grande malattia di oggi.
Le nostre suore fanno voto di dare liberamente e di cuore il loro servizio ai più poveri dei poveri. Noi promettiamo di portare Cristo, Gesù nell’affliggente maschera dei poveri. Il dare di tutto cuore, in libero servizio, ci rende totalmente dipendenti dalla provvidenza divina: noi diamo liberamente quello che liberamente abbiamo ricevuto. Per poter capire la povertà dei poveri e chi sono i poveri, noi scegliamo di vivere sperimentando questa povertà nella nostra vita. Per questo la povertà nella nostra congregazione è la nostra forza, la nostra libertà di andare al povero, di incontrarlo, di arrivare a faccia a faccia con lui. Tutto il lavoro che la nostra congregazione compie per i più poveri dei poveri, è un frutto che viene dalla nostra unione con Dio. Cristo ha detto: Io sono la vite e voi i tralci. É nei tralci che Cristo produce frutto, a causa di questa unione dei tralci con la vite. La nostra vita di religiose e la nostra vita spirituale sono una vita di preghiera e di dipendenza, che dà come frutto il lavoro per i più poveri dei poveri: sono il nostro amore di Dio in azione al servizio dei poveri.
Noi cerchiamo di ’pregare’ il lavoro, facendolo per Gesù, in Gesù e verso Gesù. Il Signore Gesù ha detto: Ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito, ero ammalato e mi avete visitato, ero senza casa e mi avete dato una casa. Tutta la congregazione, ovunque sia, deve fare solo questo: dar da mangiare a Cristo, non solo con il pane, ma con l’amore e la cura; dare asilo a Cristo, senza casa, non solo nella casa, ma anche nel proprio cuore, nel proprio amore, nella comprensione, col portare la pace; non solo con il dare i vestiti, ma rivestendo i poveri con la propria compassione.
La nostra opera deve rimanere povera e facciamo un’umile cosa: questo è il diritto della nostra congregazione. Il giorno in cui diventassimo ricche e tralasciassimo il servizio dei più poveri dei poveri, perderemmo il dono di Dio.
IL tema di questo incontro è: “I poveri sono speranza”. Essi sono veramente la speranza del mondo, a causa del loro amore e del loro coraggio. Essi sopportano, essi accettano la sofferenza, essi fanno fatica nella vita. Tra loro ci sono magnifici esempi, essi sono speranza, perché attraverso loro, compiendo il nostro lavoro d’amore, noi giungiamo più vicini a Dio. Questo contatto con i poveri è la dura fatica che forma le nostre suore nel loro tirocinio: la gente è la cosa migliore per renderle diverse, la povera gente ha insegnato a tutte noi un modo diverso di amare Dio, nell’azione, nella sofferenza, facendo qualunque cosa fosse possibile per risollevarsi.
La nostra vita religiosa è votata a Dio nel Santissimo Sacramento: incominciamo sempre la nostra giornata con la Messa e la Santa Comunione e la terminiamo con l’Adorazione; ogni giorno facciamo l’esposizione del Santissimo Sacramento. Questo è stato deciso solo l’anno scorso e ci siamo accorte che ha realmente cambiato la nostra vita, ci ha reso più vicine l’una all’altra e ci ha dato un amore più profondo a Cristo nei poveri, a Cristo nell’affliggente maschera dei poveri; siamo arrivate a conoscerci meglio e a conoscere meglio il povero. Attraverso il sacrificio dell’Eucaristia noi siamo capaci di vivere la nostra vita di missionarie della carità: una concreta testimonianza di Dio come amore, col vivere la vita eucaristica nella messa e lungo il giorno nel servizio dei poveri terminando alla sera con l’adorazione del Santissimo Sacramento.
Da quando abbiamo incominciato questa adorazione, non abbiamo diminuito io nostro lavoro, diamo tutto il tempo di prima, ma con una maggiore carica di amore e di comprensione. La gente ore riesce meglio ad accettarci, perché è affamata di Dio, non ha bisogno di noi, ma di Gesù. Nessuno al mondo può dare Gesù meglio di noi religiose, perché noi apparteniamo a Lui. Per poter amare i poveri, dobbiamo prima essere capaci di amarci reciprocamente nella nostra comunità. Spesso riesce più facile sorrider fuori della comunità, dove un sorriso ad un nostro vicino richiede un duro sacrificio.
Recentemente, poco prima di lasciare l’India, sono venuti da noi alcuni insegnanti dell’America e da Roma e mi hanno chiesto cosa potevo suggerire loro per agire meglio e io ho risposto: “Sorridete alle vostre mogli e permettete alle vostre mogli di sorridere a voi: questo è spesso difficile”. E ad uno che mi chiedeva se fossi sposata, ho risposto di sì, aggiungendo che talvolta mi era difficile sorridere a Gesù. Noi religiose non abbiamo nessun motivo per essere tristi, perché Cristo ha dato se stesso a noi senza riserve e noi come risposta dobbiamo dare noi stesse a Lui attraverso i voti, la vita di preghiera e di sacrificio. L’aspirazione della nostra congregazione è di dissetare la sete di amore di Cristo sulla Croce. Lo stile della congregazione è l’abbandono totale a Dio, nell’amore fiducioso l’una per l’altra e nel buonumore. Le nostre religiose lavorano in India, in Australia, a New York, a Londra, a Roma, a Gaza, in Terra Santa, nello Yemen, ad Amman, in Africa, in Venezuela, in Perù. Stiamo per andare in Cambogia, per aiutare anche quella gente. Abbiamo anche 140 fratelli laici e sei preti. Facciamo la stessa vita, lo stesso lavoro e abbiamo bisogno di molta preghiera per essere capaci di continuare il lavoro che Dio ci ha dato con grande amore. Il nostro lavoro sembra molto grande, ma in se stesso non è così vasto come potrebbe far credere il coinvolgimento di così tanta gente. Nel mondo molta altra gente sta facendo un lavoro simile e con grande amore; così questo amore concreto, questo amore di Dio in azione, si diffonde ogni giorno di più nel mondo. E bello vedere la gente cercare di amarsi l’un l’altro, come Cristo ha detto” Amatevi come io vi ho amati. E così, tutti noi insieme, perché quello che state facendo è indispensabile ala Chiesa; la vera necessità è che rimaniamo fedeli alla grande chiamata che Dio ci ha rivolto, quella di essere sua proprietà. Abbiamo case per handicappati, per bambini non voluti e abbandonati, ci prendiamo cura dei lebbrosi; abbiamo piccole scuole, centri di cucito a altre iniziative simili per aiutare i poveri a migliorare la condizione loro e delle loro famiglie., delle quali ci preoccupiamo moltissimo e che qui possono riunirsi, stare assieme e volersi bene reciprocamente.
A Calcutta abbiamo una casa per moribondi vicino al tempio della dea Kali, dove in 21 anni abbiamo condotto, raccogliendoli dalle strade, 27.000 moribondi, di cui 13.000 sono morti serenamente in Dio. Ricordo di aver raccolto un giorno un uomo per la strada che mi disse: “Sono vissuto come un animale nella strada, ma ora vado a morire come un angelo nell’amore e nella premura delle suore”. Ed è veramente morto come n angelo, serenamente. Tutti muoiono con Dio.