Carissimi
fratelli e sorelle,
che il Signore sia sempre nel vostro cuore
e il vostro cuore sia unito profondamente a Gesù
che ci ha donato la vita.
Il Gesù che a noi si è donato, ancora oggi si dona a noi
nel grande segno dell’Eucaristia, che vorrei sempre indicarvi come
il dono per eccellenza, per mezzo del quale Egli offre la sua santa umanità
e la sua salvezza. L’Eucaristia nacque in circostanze drammatiche,
in una notte di tradimento e di amore: tradimento dell’uomo, amore
del Dio fattosi uomo, Gesù Cristo. L’Eucaristia è
il “memoriale” della morte e risurrezione di Gesù,
dell’Amore che si immola,
del Misericordioso che si fa compassione.
L’Eucaristia realizza il mistero della passione e morte di Gesù.
ma anche il mistero della Risurrezione., che corona il suo sacrificio.
Perciò essa è garanzia della risurrezione del corpo alla
fine del mondo. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha
la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”
(Gv 6,54). Se l’Eucaristia è tutto questo, perché
molti cristiani non la frequentano, pur sapendo che Gesù è
morto anche per i loro peccati? Forse la risposta sta nel fatto che molti
non hanno capito il valore di “memoriale” dell’Eucaristia
o perché la si riduce a simbolo, a semplice ricordo di un fatto
passato (morte e risurrezione di Gesù) e quindi a momento socializzante
e nulla più; oppure riducono la morte e risurrezione di Gesù
a un fatto privato, da vivere senza ricorrere alla liturgia.
L’Eucaristia non è neanche il ripetersi ogni volta di nuovo
del sacrificio della Croce, che rimane unico e irripetibile. L’Eucaristia
è “memoriale” perché l’unico sacrificio
si rende presente e attuale a tutti coloro che in quel momento la celebrano.
E nell’oggi Gesù si dona come Parola e specialmente come
Cibo a coloro che di Lui si nutrono comunicando al suo santo Corpo e al
suo santo Sangue. L’Eucaristia diviene così pegno, garanzia
della gloria futura, diviene già anticipazione della vita eterna
in Lui.
Però, perché l’Eucaristia possa essere celebrata degnamente
richiede il sacramento della Confessione per i peccati gravi contro la
fede e la morale.
Quali sono i peccati gravi che impediscono di comunicare al Corpo e Sangue
di Cristo perché non c’è comunione con Cristo stesso?
Ne ricordo alcuni.
Non credere alla divinità di Cristo, alla
sua risurrezione e alla propria risurrezione.
Non credere alla presenza reale di Gesù nel pane consacrato.
Non frequentare l’Eucaristia domenicale.
Bestemmiare.
Calunniare le persone e dire il falso.
Eutanasia
Divorzio
Peccati sessuali: masturbazione, rapporti pre-matrimoniali, rapporti interrotti,
uso dei contraccettivi, giochi erotici.
Aborto (omicidio) e uso dei contraccettivi abortivi, come la pillola del
giorno dopo e la spirale (omicidio).
Trascurare i propri genitori anziani.
Non condividere il dolore con le persone che soffrono.
Carissimi, potrei allungare l’elenco delle
nostre azioni antievangeliche, ma mi fermo, richiamandovi l’importanza
settimanale dell’Eucaristia domenicale, come un andare alla sorgente
della grazia divina per riprendere vita, forza e coraggio e sentirsi riconfermati,
per continuare l’Eucaristia nella vita come inviati da Gesù
e dalla Chiesa stessa ad annunciare a tutti i cristiani e non la Buona
Notizia di Nazareth, Gesù stesso, unico Salvatore.
A tutti auguro una buona preparazione al Natale di Gesù, perché
Egli ogni giorno rinasca in noi come unica speranza di vita e di salvezza
eterna.
don Pierangelo

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Mi
sarete testimoni
Presentazione del Percorso Pastorale Triennio 2003 - 2006
“Un messaggio rivolto a tutti
i cristiani e un modo per valorizzare anche coloro che sono ai margini
della Chiesa o che sanno accettare la croce in condizioni di malattia
e difficoltà”.
Così il cardinale Dionigi Tettamanzi, al termine del Pontificale
solenne da lui presieduto nel Duomo di Milano l’8 settembre, ha
definito il “Percorso pastorale diocesano per il triennio 2003-2006”,
presentato ufficialmente in un’affollata conferenza stampa nella
stessa mattinata e intitolato “Mi sarete testimoni. Il volto missionario
della Chiesa di Milano”.
Indicando come linea unificante del teso il “caso serio della fede”
e la necessità di cogliere le modalità per comunicare al
meglio il Vangelo nel mondo di oggi, l’arcivescovo ha parlato di
un rischio “anche più pericoloso e più immediato dell’integralismo,
ossia la dimenticanza e addirittura la perdita della propria identità
cristiana, particolarmente evidente nella gioventù”.
“Penso che la cultura dominante, molto consumistica, individualistica
ed egoista -- ha continuato il presule -- implichi la necessità
di prendere le distanze da certi modelli di comportamento massificati
se vogliamo una cultura più e veramente umana. In questa direzione
devono impegnarsi tutti, ma i credenti hanno una responsabilità
in più. Il cristiano si vede non tanto andando a messa la domenica,
ma nella vita di tutti i giorni, dove p chiamato ad essere sale della
terra. La vera sfida è una fede da celebrare, da professare, da
vivere”.
Da qui l’invito, espresso con chiarezza da Tettamanzi anche nel
volume, a valorizzare il ruolo dei laici che “possono anche essere
segno di contraddizione, proprio nella dimensione di una voce che si alzi
per l’umanizzazione della società e nell’impegno concreto
per il bene comune. Il senso del percorso proposto non è dire ai
cattolici che sono i ’primi’, ma anzi che devono essere gli
ultimi in senso evangelico, perché per primi raccolgano le provocazioni
del Vangelo”.
“Il dialogo interreligioso deve sempre essere aperto, pur nella
consapevolezza della propria identità di annunciatori di Cristo”,
ha spiegato il cardinale, che si è soffermato anche sulla necessità
“di nuovi cammini di sperimentazione in tema di catechesi e di iniziazione
cristiana” e sul “significato fondamentale della domenica
come giorno importante di fede e di carità”.
Concludendo il cardinale ha detto: “Non dimentichiamo che la vera
casa è quella che abbiamo nel cuore, da cui può venire il
bene o il male. Dovunque c’è spazio la santità come
per i comportamenti più insidiosi. Ricordiamoci dell’esperienza
del martirio, che anche oggi vale più di tante parole”.
don Pierangelo
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Cristiani:
l'importanza di essere laici
I cristiani hanno una parola da dire "in quanto cristiani" sull'Europa?
La risposta non può che essere positiva: essi sono cittadini della
polis europea e, come tali, partecipano alla storia di questo continente
senza esenzioni né evasioni. La "nuova" Europa diventa
una sfida anche per i cristiani che nell'attuale congiuntura devono portare
il loro contributo specifico alla configurazione di questa entità.
Ma i cristiani hanno anche una "parola cristiana" da dire sull'Europa?
Qui la risposta si fa più difficile. L'Europa, infatti, non è
un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa e
la sua stessa unione è un progetto che non sarà esente dalla
tentazione di Babele: il progetto Europa interessa i cittadini cristiani,
ma l'Europa non è, né può essere, la Gerusalemme
celeste che scende dall'alto, e non è neppure il popolo di Dio!
Occorre molta vigilanza per evitare enfasi e ambiguità: il progetto
Europa abbisogna del contributo cristiano, ma su di esso i cristiani non
devono fare proiezioni teologiche. I cristiani, inoltre, non possono dimenticare
che ogni tentativo di unificazione di popoli diversi è sì
positivo, ma a condizione che non si realizzi "contro" altri
popoli o altre aree del mondo, che si spengano i nazionalismi e non si
inneschi la miscela esplosiva di religione e patria! Sarebbe non solo
politicamente e socialmente disastroso, ma radicalmente antievangelico.
Sì, a volte ho purtroppo l'impressione che alcune voci che invocano
un'Europa unita non tengano presente con chiarezza lo "statuto"
cristiano in questo mondo e finiscano per progettare una nuova cristianità
europea capace di coniugare potenze economiche, politiche e culturali
con la religione. Si vuole davvero un'Europa senza un'ideologia eurocentrica,
uno spazio di pace, di confronto e di dialogo tra le diverse culture,
rinunciando a ogni tipo di egemonia, oppure si vuole altro?
In Europa i cristiani sono presenti da due millenni, hanno contribuito
alla creazione di una civiltà plurale, hanno fornito l'etica e,
ancora nell'epoca moderna, hanno di fatto impregnato la cultura, la storia
e le istituzioni di questo continente. Ci sono alcuni contributi fondamentali
che il cristianesimo ha fornito e che l'Europa, oggi in crisi di valori,
avrebbe interesse a riconoscere e recuperare: l'affermazione della dignità
della persona umana, la centralità della ragione, la solidarietà
sociale, la comunità... Ma oggi, i cristiani hanno ancora qualcosa
di specifico da dare?
Mi pare sia di non poca importanza
il fatto che oggi i cristiani di ogni chiesa condividano la convinzione
della necessaria distinzione tra religione e politica. Finita la cristianità,
i cristiani si sono scoperti minoranza o, comunque, non più soli
nella società europea e hanno imparato dalla storia che la fede
cristiana non può identificarsi con l'ordine politico. I cristiani
oggi non vogliono uno stato confessionale cristiano, ma ambiscono a uno
stato segnato da "una giusta laicità" (l'espressione
è di Giovanni Paolo Il nel febbraio di quest'anno), in cui tutti
i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e
cultura appartengano. Certo, questa "giusta" laicità
non è laicismo ideologico né esclusivista, ma è fatta
di rispetto o di neutralità positiva. Proprio per questo, da parte
loro i cristiani vigileranno affinché al loro interno non prevalgano
quelle tendenze integraliste, fondamentaliste e settarie presenti ed efficaci
nelle diverse chiese in questi ultimi decenni. I cristiani oggi considerano
la laicità come un'opportunità e di fatto già ne
traggono dei benefici, anche se, prigionieri di nostalgie del passato,
non sempre tutti ne sono coscienti: non è forse la laicità
che permette ai cristiani di essere presenti senza arroganza ma senza
complessi di inferiorità nell'agorà della cultura, nel confronto
etico, nelle iniziative di solidarietà?
Si tratta, in un certo senso, di un aiuto a riscoprire il profondo legame
e, al contempo, la chiara distinzione tra la fede cristiana e l'impegno
nella polis: la fede in Gesù Cristo non è evasiva ma si
colloca nella storia, ispira l'agire dei credenti ma non genera messianismi
mondani o utopie ideologiche. Un documento anonimo cristiano del Il secolo
d.C.. - la lettera A Diogneto - indica con una chiarezza e attualità
rare come i cristiani "vivono nella loro patria, ma come forestieri;
partecipano alla vita pubblica come cittadini e da tutto sono distaccati
come stranieri; ogni nazione straniera è patria loro, e ogni patria
è straniera...". Consapevoli che la loro vita rappresenta
per molti aspetti una differenza - la differenza cristiana, appunto -
e che per questo possono diventare segno di contraddizione per la società,
i cristiani mostreranno un "comportamento bello" - secondo l'espressione
dell'apostolo Pietro - in mezzo ai non cristiani, mostreranno che la "differenza
cristiana" deriva dal lasciarsi ispirare dal vangelo di Gesù
Cristo e testimonieranno così, senza proselitismi, la loro speranza.
La loro presenza nella società sarà allora "compagnia",
il loro rapporto con gli altri "sympatheia", la loro dimora
sulla terra una convivenza serena. I cristiani, proprio perché
attendono il regno e la venuta del loro Signore, guardano al futuro con
speranza e vogliono continuare a dire, meglio, a essere una "buona
notizia", un "evangelo", come il loro Signore ha chiesto
ai suoi discepoli.
Così i cristiani cercheranno
di aprire cammini assieme agli altri uomini, con loro si sforzeranno di
edificare la polis senza titoli di privilegio, senza ricette infallibili,
senza pretese di egemonia. Il vangelo, infatti, ispira i loro progetti
ma non ne detta la forma di realizzazione, da ricercarsi assieme agli
altri cittadini non cristiani. Nessun fondamentalismo, quindi, né
tantomeno integralismo - sempre figli dell'angoscia di salvezza e di dominio
- devono inficiare l'attiva presenza dei cristiani nella società.
Essere cristiani significherà allora impegno a servizio della comunità
politica, indicazione di vie per l'Europa caratterizzate da orientamenti
etici quali la giustizia, la partecipazione di tutti al benessere, la
pace e la convivenza come qualità della vita. Allora l'Unione europea
non sarà un "bene" esclusivo per i propri cittadini,
bensì estensibile a tutti gli altri paesi del mondo.
Ma esiste anche un altro contributo che i cristiani dovrebbero dare per
essere veramente fedeli al vangelo e autenticamente "profetici":
la ricerca dell'unità. Unità dei cristiani, innanzitutto:
se i discepoli di Gesù Cristo continuano a essere divisi, a opporsi
tra loro, se non riescono nemmeno a incontrarsi per discutere i motivi
di dissenso (come avviene invece addirittura tra schieramenti politicamente
opposti o tra governi ostili), se di fatto con il loro proselitismo fomentano
il "mercato delle fedi", allora il loro stesso agire per il
progresso della fede risulterà depotenziato e la loro eventuale
e occasionale alleanza su singoli aspetti della normativa europea sarà
letta dai non cristiani come unione strategica, come lobby volta ad acquisire
peso e potere presso le istituzioni politiche. Tra le chiese occorre che
l'ecumenismo, formalmente dichiarato come impegno irrinunciabile, divenga
un atteggiamento quotidiano che non consenta a una chiesa di avanzare
senza l'altra o, peggio ancora, contro di essa: solo così si potrà
predisporre tutto in vista di una comunione autentica e feconda. La chiese
d'Europa hanno elaborato, discusso e approvato insieme una "carta
ecumenica", ma questa va realizzata giorno dopo giorno, con audacia,
pazienza e tenacia.
Ma l'unità delle chiese deve essere perseguita anche come servizio
all'unità dell'umanità: i cristiani devono collocare ogni
processo di unità in una prospettiva universale, a servizio dell'intero
genere umano. Un impegno per la concordia tra le genti e le culture va
accompagnato dalla ricerca convinta della pace, dall'educazione alla convivenza
pacifica delle nuove generazioni cristiane che non hanno conosciuto gli
orrori della guerra, da uno sforzo a evitare qualsiasi scontro di civiltà
e a volgere invece le tensioni in occasioni di confronto e di arricchimento
reciproco. Allora si potrà andare verso una mondializzazione della
solidarietà, una globalizzazione della giustizia e della pace.
Solo così si potrà sempre di più pensare e progettare
insieme la "governanza mondiale", obiettivo per il quale un'Unione
europea capace di umanesimo potrà dare il suo fondamentale contributo.
Enzo Bianchi, Comunità di Bose
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LA
CHIESA CLANDESTINA IN CINA
DA SAPERE
I Cattolici cinesi sono 12 milioni e
sono divisi in due grandi gruppi. Da una parte ci sono quelli che
hanno aderito all’«Associazione patriottica dei cattolici
cinesi», l’organismo voluto nel 1957 dal Partito Comunista
per sganciare dal Papa i fedeli. Questa entità nomina autonomamente
i propri vescovi e teorizza il legame tra Chiesa e Stato. Anni di
persecuzioni, particolarmente dure durante la Rivoluzione culturale
(1966-76), non sono riuscite a soffocare la presenza di una Chiesa
clandestina rimasta in comunione con Roma.
UNITA’: CINA, IL GRIDO DELLA CHIESA CLANDESTINA
Non possiamo più a lungo ignorare la preghiera del Signore
Gesù «che tutti siano uno». Come vescovo, pastore
del gregge della diocesi di Lanzhou, sento che sono obbligato a dire
ai miei fratelli vescovi: liberiamo i cattolici cinesi da questa ambigua
situazione di divisione. Il desiderio del Papa, tante volte espresso...
ci incoraggia a riconciliarci". L'appello di mons. Giuseppe Han
Zhihai, 39enne vescovo «sotterraneo» della diocesi di
Lanzhou, nel Gansu, una delle regioni dove è più forte
la persecuzione, va dritta al cuore: è tempo che Chiesa ufficiale
e Chiesa clandestina siano unite, secondo il volere di Gesù
e secondo il desiderio di Giovanni Paolo II. Un appello coraggioso:
anzitutto perché un gesto così - una lettera «agli
amici» vescovi ufficiali e non ufficiali – non sarà
ben visto dall'Ufficio Affari Religiosi del governo, secondo cui nessun
passo della Chiesa può essere compiuto senza il suo permesso
e consenso; da questo punto di vista la lettera è qualcosa
di illegale, che fa temere conseguenze sulla persona del vescovo.
Ma l'appello è coraggioso soprattutto perché viene da
un vescovo della Chiesa clandestina, finora la più restia a
collaborare con la Chiesa ufficiale. Non senza ragione: per quasi
50 anni, dalla formazione dell'Associazione Patriottica, il governo
ha tentato in tutti i modi di controllare e isolare la Chiesa cinese
da tutti i suoi rapporti con la Santa Sede e con la comunità
universale. E mentre l'Associazione Patriottica proclamava il programma
delle Tre Autonomie (di dottrina, di gerarchia, di amministrazione),
rasentando lo scisma, molti vescovi, preti e fedeli, pur di non tradire
il rapporto col Papa, hanno accettato di essere perseguitati, messi
in prigione, uccisi. La conseguenza è stata una sempre più
forte estraneità e divisione fra le due comunità, fino
ad evitare e perfino rifiutare la celebrazione eucaristica comune.
II vescovo lo ricorda nella lettera: "Siamo molto dispiaciuti
[della divisione]... ma abbiamo preferito quella situazione, piuttosto
che avere l'intera Chiesa cinese separata da Roma".
Negli ultimi vent'anni sono successi fatti importanti: molti vescovi
e sacerdoti della Chiesa ufficiale, hanno chiesto e ottenuto la riconciliazione
con la Santa Sede, divenendo a tutti gli effetti vescovi della Chiesa
cattolica. A questo passo essi sono stati spinti da diversi fattori:
dalla Rivoluzione Culturale (e poi dal massacro di Tienanmen), che
ha cancellato le pretese "patriottiche" del governo, rivelandolo
come un'asfissiante struttura di potere; dall'approfondimento della
fede cattolica, impossibile senza il legame con il Papa. Gli sforzi
continui di Giovanni Paolo Il per la riconciliazione della Chiesa,
come anche il suo atteggiamento di apertura verso Pechino, teso a
manifestare il desiderio della Chiesa di servire il popolo cinese,
hanno fatto il resto. A tutt'oggi, più dell'80% dei vescovi
ufficiali sono in comunione con il Papa.' «insieme con i vescovi
non ufficiali - scrive mons. Han - i vescovi legittimi formano di
gran lunga la maggioranza dei vescovi cinesi». Questa situazioni
non è ancora entrata nella mentalità dei fedeli: ancora
adesso, in alcune parti della Cina - soprattutto dove i fedeli hanno
subito persecuzioni più aspre - il rapporto fra le comunità
è difficile e l'eucaristia non viene celebrata insieme. Un
altro elemento che contribuisce alla divisione è, da una parte,
la timidezza (e paura) di alcuni vescovi ufficiali a proclamarsi pubblicamente
in comunione col Papa; dall'altra, l'asprezza di quei membri della
chiesa sotterranea, che non sanno essere teneri verso i più
deboli. La proposta di Han è netta: «Diciamo con chiarezza
ai nostri fedeli che siamo in unità di fede col Santo Padre
e con la Chiesa universale, così che sia chiaro l'uno all'altro
da che parte stiamo. In tal modo potremo in pace, ma coraggiosamente,
incontrarci a celebrare nell'eucaristia la nostra unità in
Cristo». Le parole ricalcano quelle del Papa a Manila, nel 1995,
quando in un messaggio ai cinesi chiese ai cristiani della Chiesa
ufficiale di essere «più espliciti» nel loro rapporto
con la Santa Sede e ai cristiani sotterranei di essere «più
caritatevoli verso i deboli». Va detto comunque che fra tanti
vescovi la collaborazione (anche se non pubblica) esiste. Mesi fa,
un vescovo della Chiesa ufficiale ci ha confermato che «ormai
la Chiesa di Cina é una» e in molte diocesi i pastori
collaborano insieme nella pastorale. Si ne sono accorti il governo
e l'Associazione Patriottica, che negli ultimi anni non fanno chi
incrementare le regole le condizioni di controllo della Chiesa ufficiale:
vescovi ufficiali vengono isolati e vigilati giorno e notte, seminaristi
subiscono sessioni politiche ogni settimana, le visite dall'estero
sono monitorate ad ogni passo; intanto fedeli della Chiesa sotterranea
vengono imprigionati. Ma seno gli ultimi guizzi di una partita che
sembra persa: la Chiesa di Cina è saldamente ancorata alla
Roccia di Pietro, anche dentro la persecuzione, che unisce ormai ufficiali
e non ufficiali.
ARRESTATE QUEL PRETE COLPEVOLE DI
CATECHISMO
Un sacerdote "sotterraneo"
è stato arrestato per aver celebrato la Messa durante un campo
estivo di catechismo. Padre Chi Huitan, della diocesi di Baoting,
e due laici sono stati arrestati lo scorso 9 agosto a Lijiatong, villaggio
situato a 280 km da Pechino e nel quale vivono un centinaio di cattolici.
Padre Chi, come ogni estate, aveva organizzato lezioni di catechismo
e stava celebrando la messa, quando 35 auto della polizia e oltre
100 agenti hanno circondato il luogo e hanno arrestato il sacerdote
e i due laici che lo aiutavano. Questi ultimi sono stati rilasciati
in giornata. Il sacerdote è accusato di aver profondamente
turbato l'ordine pubblico e non gli è consentito vedere nessuno.
E' la terza,volta che padre Chi viene arrestato per gli stessi motivi,
sempre durante le lezioni estive di catechismo. In questi giorni è
intanto stato rilasciato mons. Giulio Jiazhiguo, vescovo "sotterraneo"
di Zhengding, che era stato arrestato lo scorso 23 maggio. Anche lui
è stato arrestato per l'ennesima volta perché si rifiutava
di appartenere all'Associazione Patriottica.

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Carlo
Maria Martini
«Ogni popolo guardi il dolore dell’altro e sarà pace»
“Io sono il Signore tuo Dio… non avrai altri dèi di
fronte a me” (Esodo 20,2) “Egli [Allah] è Dio e non
vi è altro Dio che Lui” (Corano, Sura del bando LIX 22)
Il comandamento dell’unicità di Dio tocca profondamente il
cuore di ebrei, cristiani e musulmani, segnando un principio irrinuciabile
di vita e di azione. C’è un Dio solo, potente e misericordioso,
e nulla è comparabile a lui. É il primo comandamento del
decalogo ebraico-cristiano e uno dei pilastri della concezione religiosa
islamica.
Ma è anche un precetto segreto che risuona nel cuore di ogni persona
umana: chi adora o serve in ogni modo un idolo ha una coscienza almeno
vaga di voler “usare” la divinità o comunque un principio
assoluto per i propri scopi, sente che sta strumen-talizzando e sottoponendo
ai propri interessi un sistema di valori a cui occorre invece rendere
onore. Per questo chiunque adora un idolo intuisce che in qualche modo
si degrada, sta facendo il proprio male e sta preparandosi a fare del
male agli altri.
Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Più radicati e potenti,
duri a morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando
sembra escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli
della violenza, della vendetta, del potere (politico, economico, militare,…)
sentito come risorsa definitiva e ultima. É l’idolo del volere
stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare
nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche
cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche se non si presentano
con le vesti rispet-tabili della giustizia e del diritto, sono in realtà
assetati di sangue umano. Essi han-no una doppia caratteristica: schiavizzano
e accecano. Infatti, come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli
diviene schiavo degli idoli, anche di quelli invisibili: non può
più sottrarsi, ad esempio, alla spirale perversa della vendetta
e della ritorsione. E chi è schiavo dell’idolo diventa cieco
riguardo al volto umano dell’altro. Ricordo la frase con cui alcuni
giovani ex terroristi degli anni ’80 cercavano di descrivere come
avessero potuto sparare e uccidere:”non vedevamo più il volto
degli altri”.
Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno
che c’è un’adorazione di questi idoli e che essi ripagano
con la loro moneta distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia
solo nella violenza e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere
l’altro e alla fine distrugge se stesso. Già san Paolo ammoniva:
“se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi
del tutto gli uni gli altri!”. E ancora:”Non vi fate illusioni:
non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà
quello che avrà seminato” (Lettera ai Galati 5,15 e 6,7).
Siamo nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo
di solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano. Nell’adorazione
dell’idolo della po- tenza e del successo totale ad ogni costo è
l’idea stessa di uomo, di umanità che viene offesa, è
l’immagine stessa di Dio che viene sfigurata nell’immagine
sfigurata dell’uomo.
Ma proprio da questa situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi
in un tragico vi- colo cieco di violenza - a cui ha fatto più volte
allusione il Papa Giovanni Paolo II - può scaturire un grido di
allarme salutare e urgente, più forte dell’idolatria del
potere e della violenza. É un grido che si traduce concretamente
nel proclamare che non vi sono alternative al dialogo e alla pace. Lo
sta da tempo ripetendo in tanti modi Giovanni Paolo II. Ma esso è
un grido che precede le dichiarazioni pubbliche, per quanto accorate.
Risuona infatti nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo che si
ponga il problema della sopravvivenza umana. Di alternativo alla pace
vi è solo il terrore, comunque espresso. Quando la sola alternativa
è il male assoluto, il dialogo non è solo una delle possibili
vie d’uscita. ma una necessità ineludibile. Per questo i
leader di tutte le parti tra loro contrastanti debbono rischiare senza
esitazioni il dialogo della pace.
Tutto questo fa emergere ancora più chiaramente le responsabilità
della comunità internazionale, quelle dell’ONU e quelle dell’Europa,
quelle degli Stati Uniti, della Russia e dei Paesi Arabi. É necessario
che tutti aiutino il processo di pace che si era appena iniziato, con
una pressione forte e convinta a favore della Road Map e anche con la
prontezza a fornire un sostegno politico e finanziario alle comunità
che hanno il coraggi di rischiare la pace. Alla costruzione di muri di
cemento e di pietra per dividere le parti contrastanti, è preferibile
un ponte di uomini che, pur garantendo la sicurezza di entrambe le parti,
consenta alle due comunità di comunicare e di intendersi sempre
più sulle cose essenziali e su quelle quotidiane.
Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava
sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se nutrono come di un veleno che
mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio
e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore
dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni
alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi,
quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo,
alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solamente
al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento,
della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà
anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e
persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio
di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa
di ogni futura politica di pace.
Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri
interessi al di sopra di tutto, dimenticando l’altro, le sue sofferenze,
i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell’idolo
consiste nel mettere l’altro al centro, così da creare quella
base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative.
Carlo Maria Martini

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Come
trovare la strada giusta?
Quando vediamo dei bambini in ozio o incantati
davanti alla Tv, ci viene una grande tristezza, tanto più se si
tratta di Tv poco adatta a loro. Pensiamo alle tante occasioni perdute.
Occasioni anche di leggere, di guardare con interesse un fiore, o un animale,
o un nido fra i rami, o un volo di gabbiani. Devono esser i genitori,
prevalentemente, ad attirarli su questi spettacoli. Più tardi ci
accorgeremo che sono proprio i bambini a «stimolare» i genitori.
«Guardate, che belle paperette!». Oppure: «La luna stasera
è più luminosa del solito». Osservazioni ed emozioni
da condividere.Mai avvenga di evitare di intrattenersi con i propri figli,
di scambiarsi idee ed emozioni .Aiutiamoli ad allargare i propri orizzonti
con nozioni ed esperienze utili, che diventino in seguito un valido bagaglio
di conoscenze. Favoriamo il loro inserimento nella vita sociale, aiutandoli
a sapere stare con gli altri, a rispettare gli altri, adulti o bambini
che siano. I bambini che vengono privati di tali insegnamenti, di intelligenti
e aperti rapporti con gli altri, finiscono col diventare degli asociali.
Tante storture e devianze che troviamo in alcuni adolescenti e giovani
di oggi: apatia, svogliatezza, indifferenza a tutto e a tutti dipendono
in gran parte dal fatto di essere stati lasciati a se stessi, senza un
ordine, senza interessi, senza veri rapporti umani.
I genitori dovrebbero proprio riflettere sui rapporti adulto-bambino.
Sono determinanti.

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MI
SARETE TESTIMONI
Sono le parole di Cristo ai suoi Apostoli, scelte dal nostro arcivescovo
come titolo del "Percorso pastorale diocesano" per il triennio
2003-2006.
Siamo tutti chiamati e mandati da Cristo- all'evangelizzazione e alla
trasmissione della fede, oggi, nel tempo presente, ma aperti al futuro;
nelle nostre comunità familiari e nere nostre comunità parrocchiali,
ma immersi nel mondo a servizio del Regno.
Unico annuncio dell'evangelizzazione, unica "buona notizia"
è Cristo: Cristo, il "cuore" della fede e dell'evangelizzazione,
Cristo, vero Dio e vero uomo, Cristo, l'unico, universale e necessario
Salvatore.
Lui ci chiama ad essere partecipi e continuatori della Sua missione.
La Chiesa deve riacquistare uno slancio missionario, deve educare a una
coscienza missionaria nuova, deve fare scelte pastorali missionarie, non
anteponendo nulla a Cristo!
Ecco ora due aspetti particolari della testimonianza e dell'evangelizzazione
cui tutti siamo chiamati: l'attenzione ai missionari nel mondo e quella
ai nostri bambini e ragazzi.
La nostra Parrocchia cerca di mantenere vivo lo spirito missionario aperto
al mondo con un'attenzione costante a molti missionari, con la preghiera
e l'aiuto materiale ad alcuni missionari, ad alcuni seminaristi dell'Est,
che si preparano al Sacerdozio, grazie anche alla generosità di
molte persone, oltre che alle iniziative del gruppo missionario e dei
ragazzi dell'oratorio.
L'attenzione ai bambini e ai ragazzi richiede che siano educati alla fede,
ricevano l'unico annuncio che salva, sentano parlare della Verità:
Cristo Gesù.
Nella Chiesa, e quindi anche nella nostra parrocchia, i genitori continuano
a chiedere i Sacramenti per i propri figli: Battesimo, Prima Comunione,
Cresima. Ma come e perché? Per continuare una tradizione? Che significato
viene attribuito realmente dalle famiglie e dai singoli a questi "appuntamenti"
di Chiesa? E il significato di un vero e proprio sacramento, cioè
di un incontro misterioso e reale di Dio che salva l'uomo, una risposta
personale e vitale dell'uomo all'amore di Dio? Oppure è il significato
di una semplice cerimonia, che è diventata costume sociale e che
si risolve in elementi esteriori come i vestiti, i regali, gli inviti,
le fotografie, i pranzi? II forte richiamo del Vescovo su questo punto
è un invito ad una riscoperta della nostra fede in Cristo e nei
Sacramenti, perché la nostra consapevolezza sia da esempio ai più
piccoli.
I catechisti, testimoni di Cristo, annunciatori dei Vangelo vivono con
i bambini e i ragazzi il cammino di preparazione ai Sacramenti dell'iniziazione
cristiana, consapevoli della grande responsabilità cui la Chiesa
li chiama, attenti a porre sempre al centro della loro azione Cristo e
non se stessi, la Verità e non le proprie convinzioni, la consapevolezza
che senza di Lui non si può nulla. E tutta la comunità,
per essere veramente in missione, come ci richiama anche il tabellone
posto in fondo alla nostra chiesa, non può vivere senza la domenica
"giorno della fede" e "giorno dell'Eucaristia", celebrata
in Parrocchia con tutta la comunità, arrivo e partenza di ogni
settimana.
Gruppo missionario, Gruppo catechisti

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Madre
Teresa di Calcutta: storia di una vocazione
Madre Teresa di Calcutta (Agnes Gonxha Bojaxhiu) nasce il 26 agosto 1910
a Skopje da una famiglia cattolica albanese. Cresce nella parrocchia di
Cristo Re, dove frequenta un gruppo di preghiera e di aiuto per le missioni,
dove incontra dei padri gesuiti che lavorano a Calcutta, nell’India.
L’esperienza dei missionari la colpisce profondamente e a 18 anni
entra nella congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di
Loreto. Nel 1928 parte per l’Irlanda e un anno dopo è a Darjeeling,
alle pendici dell’Himalaya per il noviziato. Nel 1931 prende i voti
e il nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù. Per circa 20 anni
insegna a ragazze di buona famiglia in un collegio di Calcutta. Ma oltre
il muro di cinta c’è Motijhil, con i suoi odori acri e soffocanti,
una delle periferie più miserabili della megalopoli indiana, la
discarica del mondo. Suor Teresa, pur sentendone i miasmi, non lo conosceva.
Era l’altra faccia dell’India, un mondo a lei sconosciuto,
fino alla sera del 10 settembre 1946, quando avvertì la “chiamata
nella chiamata”, mentre in treno si recava a Dajeerling per gli
esercizi spirituali.
Stretta in un cantuccio faticosamente conquistato, pensava alla folla
di affamati, storpi, ciechi e lebbrosi che popolavano i marciapiedi di
Calcutta. Quella notte non riesce a dormire e si ripete continuamente:
Devo fare qualcosa! Durante tutto il viaggio le risuona nella testa e
nel cuore il grido dolente di Gesù sulla Croce: Ho sete. É
un misterioso richiamo, sempre più chiaro e pressante con il passare
delle ore: deve lasciare il convento per servire i più poveri tra
i poveri, quel genere di persone che non sono niente, che vivono ai margini
di tutto, i derelitti che ogni giorno agonizzano sui marciapiedi indiani,
senza nemmeno la dignità di poter morire in pace. Nel 1947 Pio
XII la autorizza a lasciare la sua congregazione per lavorare per i poveri.
Veste con il sari orlato di azzurro delle indiane più povere e
ha in tasca 5 rupie! A Calcutta passa da una baracca all’altra,
lavando i bambini, i vecchi piagati, le donne sofferenti. Gira chiedendo
cibo e medicine, mendicante lei stessa per curare e sfamare i poveri.
Apre una scuola all’aria aperta, come lavagna la terra polverosa,
circondata da mendicanti e bambini affamati, mentre sui marciapiedi ai
lati della strada stanno coloro che non si nemmeno se erano ancora vivi
oppure morti. “La prima persona che tolsi dal marciapiede era una
donna mangiata per metà dai topi e dalle formiche. La portai con
un carretto all’ospedale, non volevano accettarla, se la tennero
soltanto perché mi rifiutai di andarmene se non l’avessero
ricoverata…”: così racconterà madre Teresa.
L’opera della fragile suora continuerà e il suo corpo è
tutto dolorante per la fatica. “I poveri sono il tramite attraverso
il quale esprimiamo a Dio il nostro amore”. La sua abitazione è
una baracca sterrata, dove ricovera chi non è accolto dagli ospedali.
Nel febbraio 1949 un funzionari statale mette a sua disposizione un locale
all’ultimo piano di una casa di Creek Lane. Lì viene raggiunta
dalla prima consorella, Shubashini, che prende il nome di suor Agnes,
nome di battesimo di madre Teresa. Poi le suore divennero quattro, otto,
dodici: la comunità andava formandosi. Da questo momento in poi
cominciava la corsa da gigante della piccola Gonxha di Skopije, diventata
la madre Teresa che oggi tutti conoscono.

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Il
Rosario mi aiuta ad essere fanciullo
“Recitiamo il Rosario!”: era un’espressione abituale
di Albino Lucani quando si metteva in viaggio in automobile. “Il
Rosario è il breviario dei poveri, la Bibbia dei poveri, il Rosario
me lo ha insegnato mia madre”, era solito dire. Quando salutava
persone nelle quali scorgeva semplicità e fede, diceva: “
Mi dica un’Ave Maria, perché il diavol non me porte via!”.
Egli osservava anche che la sua vita si era svolta attorno a tante chiese
e santuari della Madonna. Da fanciullo, ancora assonnato, accompagnava
la mamma, recitando il Rosario, ai santuari della Madonna della Grazie
di Alleghe e di Pietralba. Da vescovo andava pellegrino, con la corona
in mano, ai santuari della Madonna a Follina, a Motta di Livenza, a Monte
Berico, a Castelmonte, a Trieste, a Venezia, a pregare davanti alle immagini
di Maria. Scriveva: Sono vissuto sotto lo sguardo della Madonna. La Madonna
si è sentita guardata da Dio. É importantissimo per me cristiano
che mi senta oggetto dell’amore che Dio mi porta.
Ecco qui sotto alcuni passi dell’omelia che Albino Lucani, allora
Patriarca di Venezia, tenne il 7 ottobre 1973 in occasione della celebrazione
del IV centenario della festa del Rosario.
Se invitassi, durante un’adunanza
di cattolici, signore e signori a mostrare quel che tengono in tasca o
nella borsetta? Vedrei certo in quantità pettini, specchietti,
rossetti, portamonete, accendisigarette ed altre coserelle più
o meno utili. Ma quante corone del rosario? Anni fa, ne avrei viste di
più. Nella casa del Manzoni a Milano, appesa in capo al letto,
si vede anche oggi la sua corona: la recitava abitualmente e nei Promessi
Sposi la sua Lucia tira fuori la corona e recita il rosario nei momenti
più drammatici. Windhorst, uomo di stato tedesco, fu invitato una
volta da alcuni amici non praticanti a mostrare la sua corona. Era uno
scherzo: gli avevano prima sottratta la corona dalla tasca sinistra. Windhorst,
non avendola trovata nella sinistra, mise la mano nella tasca destra e
fece bella figura. Aveva sempre con sé una corona di ricambio!
Cristoforo Gluck, grande musico, durante i ricevimenti alla corte di Vienna,
si appartava alcuni minuti per recitare il rosario. Il beato Contardo
Ferrini , professore universitario a Pavia, invitava a recitarlo gli amici
nella cui casa era ospite. Santa Bernardetta assicurava che, quando la
Madonna le apparve, aveva la corona al braccio, e le chiese se essa pure
l’avesse, invitandola a recitarla, mentre la Vergine raccomandò
ai tre pastorelli la recita del rosario.
Perché ho incominciato con questa serie di esempi? Perché
il rosario dal alcuni è contestato. Dicono: è preghiera
infantilistica, superstiziosa, non degna di cristiani adulti. Oppure:
è preghiera che cade nell’automatismo, riducendosi a ripetizione
frettolosa, monotona e stucchevole di Ave Maria. Oppure: è roba
d’altri tempi; oggi c’è di meglio: la lettura della
Bibbia, per esempio, che sta al rosario come il fior di farina sta alla
crusca! Mi permetto di dire in proposito qualche impressione di pastore
d’anime.
Prima impressione: la crisi del rosario viene in secondo tempo. In antecedenza
c’è la crisi della preghiera in generale. La gente è
tutta presa dagli interessi materiali, all’anima pensa pochissimo.
Il fracasso poi ha invaso la nostra esistenza. Macbeth potrebbe ripetere:
ho ucciso il sonno, ho ucciso il silenzio! Per la vita intima e la “dulcis
sermocinatio” o dolce colloquio con Dio, si fa fatica a trovare
qualche briciola di tempo. É un danno. Diceva Doloso Cortes: «Oggi
il mondo va male perché ci sono più battaglie che preghiere».
Si sviluppano le liturgie comunitarie, che sono certo un gran bene; esse
però non bastano: occorre anche il colloquio personale con Dio.
Seconda impressione. Quando si parla di «cristiani adulti»
in preghiera, talvolta si esagera. Personalmente, quando parlo da solo
con Dio, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo. La mitra,
lo zucchetto, l’anello scompaiono; mando in vacanza l’adulto
e anche il Vescovo, con relativo contegno grave, posato e ponderato, per
abbandonarmi alla tenerezza spontanea, che ha un bambino davanti a papà
e mamma. Essere - almeno per qualche mezz’ora - davanti a Dio quello
che in realtà sono con la mia miseria e con il meglio di me stesso:
sentire affiorare dal fondo del mio essere il fanciullo di una volta,
che vuol dire chiacchierare, amare il Signore e che talore sente il bisogno
di piangere, perché gli venga usata misericordia, mi aiuta a pregare.
Il rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta mi aiuta a essere
fanciullo, e non me ne vergogno punto.
Preghiera a ripetizione il rosario? Diceva padre De Foucauld: «L’amore
si esprime con poche parole, sempre le stesse e che ripete sempre».
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