NOVEMBRE 2003

Don Pierangelo - Riflessione sull'Eucaristia
Mi sarete testimoni (don Pierangelo)

Cristiani: l'importanza di essere laici
La Chiesa clandestina in Cina
Carlo Maria Martini - Il dolore dell'altro e la pace
Come trovare la strada giusta?
Mi sarete testimoni (Gruppo Missionario e Catechisti)
Madre Teresa di Calcutta: storia di una vocazione

Papa Albino Luciani e il Rosario

 

Un grazie a tutti i coloro che partecipano e contribuiscono sempre con grande generosità alle iniziative proposte

 

Carissimi fratelli e sorelle,
che il Signore sia sempre nel vostro cuore
e il vostro cuore sia unito profondamente a Gesù
che ci ha donato la vita.
Il Gesù che a noi si è donato, ancora oggi si dona a noi nel grande segno dell’Eucaristia, che vorrei sempre indicarvi come il dono per eccellenza, per mezzo del quale Egli offre la sua santa umanità e la sua salvezza. L’Eucaristia nacque in circostanze drammatiche, in una notte di tradimento e di amore: tradimento dell’uomo, amore del Dio fattosi uomo, Gesù Cristo. L’Eucaristia è il “memoriale” della morte e risurrezione di Gesù,
dell’Amore che si immola,
del Misericordioso che si fa compassione.
L’Eucaristia realizza il mistero della passione e morte di Gesù. ma anche il mistero della Risurrezione., che corona il suo sacrificio. Perciò essa è garanzia della risurrezione del corpo alla fine del mondo. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Se l’Eucaristia è tutto questo, perché molti cristiani non la frequentano, pur sapendo che Gesù è morto anche per i loro peccati? Forse la risposta sta nel fatto che molti non hanno capito il valore di “memoriale” dell’Eucaristia o perché la si riduce a simbolo, a semplice ricordo di un fatto passato (morte e risurrezione di Gesù) e quindi a momento socializzante e nulla più; oppure riducono la morte e risurrezione di Gesù a un fatto privato, da vivere senza ricorrere alla liturgia.
L’Eucaristia non è neanche il ripetersi ogni volta di nuovo del sacrificio della Croce, che rimane unico e irripetibile. L’Eucaristia è “memoriale” perché l’unico sacrificio si rende presente e attuale a tutti coloro che in quel momento la celebrano. E nell’oggi Gesù si dona come Parola e specialmente come Cibo a coloro che di Lui si nutrono comunicando al suo santo Corpo e al suo santo Sangue. L’Eucaristia diviene così pegno, garanzia della gloria futura, diviene già anticipazione della vita eterna in Lui.
Però, perché l’Eucaristia possa essere celebrata degnamente richiede il sacramento della Confessione per i peccati gravi contro la fede e la morale.
Quali sono i peccati gravi che impediscono di comunicare al Corpo e Sangue di Cristo perché non c’è comunione con Cristo stesso?

Ne ricordo alcuni.

Non credere alla divinità di Cristo, alla sua risurrezione e alla propria risurrezione.
Non credere alla presenza reale di Gesù nel pane consacrato.
Non frequentare l’Eucaristia domenicale.
Bestemmiare.
Calunniare le persone e dire il falso.
Eutanasia
Divorzio
Peccati sessuali: masturbazione, rapporti pre-matrimoniali, rapporti interrotti, uso dei contraccettivi, giochi erotici.
Aborto (omicidio) e uso dei contraccettivi abortivi, come la pillola del giorno dopo e la spirale (omicidio).
Trascurare i propri genitori anziani.
Non condividere il dolore con le persone che soffrono.

Carissimi, potrei allungare l’elenco delle nostre azioni antievangeliche, ma mi fermo, richiamandovi l’importanza settimanale dell’Eucaristia domenicale, come un andare alla sorgente della grazia divina per riprendere vita, forza e coraggio e sentirsi riconfermati, per continuare l’Eucaristia nella vita come inviati da Gesù e dalla Chiesa stessa ad annunciare a tutti i cristiani e non la Buona Notizia di Nazareth, Gesù stesso, unico Salvatore.
A tutti auguro una buona preparazione al Natale di Gesù, perché Egli ogni giorno rinasca in noi come unica speranza di vita e di salvezza eterna.

don Pierangelo

Mi sarete testimoni
Presentazione del Percorso Pastorale Triennio 2003 - 2006

“Un messaggio rivolto a tutti i cristiani e un modo per valorizzare anche coloro che sono ai margini della Chiesa o che sanno accettare la croce in condizioni di malattia e difficoltà”.
Così il cardinale Dionigi Tettamanzi, al termine del Pontificale solenne da lui presieduto nel Duomo di Milano l’8 settembre, ha definito il “Percorso pastorale diocesano per il triennio 2003-2006”, presentato ufficialmente in un’affollata conferenza stampa nella stessa mattinata e intitolato “Mi sarete testimoni. Il volto missionario della Chiesa di Milano”.
Indicando come linea unificante del teso il “caso serio della fede” e la necessità di cogliere le modalità per comunicare al meglio il Vangelo nel mondo di oggi, l’arcivescovo ha parlato di un rischio “anche più pericoloso e più immediato dell’integralismo, ossia la dimenticanza e addirittura la perdita della propria identità cristiana, particolarmente evidente nella gioventù”.
“Penso che la cultura dominante, molto consumistica, individualistica ed egoista -- ha continuato il presule -- implichi la necessità di prendere le distanze da certi modelli di comportamento massificati se vogliamo una cultura più e veramente umana. In questa direzione devono impegnarsi tutti, ma i credenti hanno una responsabilità in più. Il cristiano si vede non tanto andando a messa la domenica, ma nella vita di tutti i giorni, dove p chiamato ad essere sale della terra. La vera sfida è una fede da celebrare, da professare, da vivere”.
Da qui l’invito, espresso con chiarezza da Tettamanzi anche nel volume, a valorizzare il ruolo dei laici che “possono anche essere segno di contraddizione, proprio nella dimensione di una voce che si alzi per l’umanizzazione della società e nell’impegno concreto per il bene comune. Il senso del percorso proposto non è dire ai cattolici che sono i ’primi’, ma anzi che devono essere gli ultimi in senso evangelico, perché per primi raccolgano le provocazioni del Vangelo”.
“Il dialogo interreligioso deve sempre essere aperto, pur nella consapevolezza della propria identità di annunciatori di Cristo”, ha spiegato il cardinale, che si è soffermato anche sulla necessità “di nuovi cammini di sperimentazione in tema di catechesi e di iniziazione cristiana” e sul “significato fondamentale della domenica come giorno importante di fede e di carità”.
Concludendo il cardinale ha detto: “Non dimentichiamo che la vera casa è quella che abbiamo nel cuore, da cui può venire il bene o il male. Dovunque c’è spazio la santità come per i comportamenti più insidiosi. Ricordiamoci dell’esperienza del martirio, che anche oggi vale più di tante parole”.

don Pierangelo


Cristiani: l'importanza di essere laici


I cristiani hanno una parola da dire "in quanto cristiani" sull'Europa? La risposta non può che essere positiva: essi sono cittadini della polis europea e, come tali, partecipano alla storia di questo continente senza esenzioni né evasioni. La "nuova" Europa diventa una sfida anche per i cristiani che nell'attuale congiuntura devono portare il loro contributo specifico alla configurazione di questa entità.
Ma i cristiani hanno anche una "parola cristiana" da dire sull'Europa? Qui la risposta si fa più difficile. L'Europa, infatti, non è un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa e la sua stessa unione è un progetto che non sarà esente dalla tentazione di Babele: il progetto Europa interessa i cittadini cristiani, ma l'Europa non è, né può essere, la Gerusalemme celeste che scende dall'alto, e non è neppure il popolo di Dio! Occorre molta vigilanza per evitare enfasi e ambiguità: il progetto Europa abbisogna del contributo cristiano, ma su di esso i cristiani non devono fare proiezioni teologiche. I cristiani, inoltre, non possono dimenticare che ogni tentativo di unificazione di popoli diversi è sì positivo, ma a condizione che non si realizzi "contro" altri popoli o altre aree del mondo, che si spengano i nazionalismi e non si inneschi la miscela esplosiva di religione e patria! Sarebbe non solo politicamente e socialmente disastroso, ma radicalmente antievangelico. Sì, a volte ho purtroppo l'impressione che alcune voci che invocano un'Europa unita non tengano presente con chiarezza lo "statuto" cristiano in questo mondo e finiscano per progettare una nuova cristianità europea capace di coniugare potenze economiche, politiche e culturali con la religione. Si vuole davvero un'Europa senza un'ideologia eurocentrica, uno spazio di pace, di confronto e di dialogo tra le diverse culture, rinunciando a ogni tipo di egemonia, oppure si vuole altro?
In Europa i cristiani sono presenti da due millenni, hanno contribuito alla creazione di una civiltà plurale, hanno fornito l'etica e, ancora nell'epoca moderna, hanno di fatto impregnato la cultura, la storia e le istituzioni di questo continente. Ci sono alcuni contributi fondamentali che il cristianesimo ha fornito e che l'Europa, oggi in crisi di valori, avrebbe interesse a riconoscere e recuperare: l'affermazione della dignità della persona umana, la centralità della ragione, la solidarietà sociale, la comunità... Ma oggi, i cristiani hanno ancora qualcosa di specifico da dare?

Mi pare sia di non poca importanza il fatto che oggi i cristiani di ogni chiesa condividano la convinzione della necessaria distinzione tra religione e politica. Finita la cristianità, i cristiani si sono scoperti minoranza o, comunque, non più soli nella società europea e hanno imparato dalla storia che la fede cristiana non può identificarsi con l'ordine politico. I cristiani oggi non vogliono uno stato confessionale cristiano, ma ambiscono a uno stato segnato da "una giusta laicità" (l'espressione è di Giovanni Paolo Il nel febbraio di quest'anno), in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e cultura appartengano. Certo, questa "giusta" laicità non è laicismo ideologico né esclusivista, ma è fatta di rispetto o di neutralità positiva. Proprio per questo, da parte loro i cristiani vigileranno affinché al loro interno non prevalgano quelle tendenze integraliste, fondamentaliste e settarie presenti ed efficaci nelle diverse chiese in questi ultimi decenni. I cristiani oggi considerano la laicità come un'opportunità e di fatto già ne traggono dei benefici, anche se, prigionieri di nostalgie del passato, non sempre tutti ne sono coscienti: non è forse la laicità che permette ai cristiani di essere presenti senza arroganza ma senza complessi di inferiorità nell'agorà della cultura, nel confronto etico, nelle iniziative di solidarietà?
Si tratta, in un certo senso, di un aiuto a riscoprire il profondo legame e, al contempo, la chiara distinzione tra la fede cristiana e l'impegno nella polis: la fede in Gesù Cristo non è evasiva ma si colloca nella storia, ispira l'agire dei credenti ma non genera messianismi mondani o utopie ideologiche. Un documento anonimo cristiano del Il secolo d.C.. - la lettera A Diogneto - indica con una chiarezza e attualità rare come i cristiani "vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano alla vita pubblica come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri; ogni nazione straniera è patria loro, e ogni patria è straniera...". Consapevoli che la loro vita rappresenta per molti aspetti una differenza - la differenza cristiana, appunto - e che per questo possono diventare segno di contraddizione per la società, i cristiani mostreranno un "comportamento bello" - secondo l'espressione dell'apostolo Pietro - in mezzo ai non cristiani, mostreranno che la "differenza cristiana" deriva dal lasciarsi ispirare dal vangelo di Gesù Cristo e testimonieranno così, senza proselitismi, la loro speranza. La loro presenza nella società sarà allora "compagnia", il loro rapporto con gli altri "sympatheia", la loro dimora sulla terra una convivenza serena. I cristiani, proprio perché attendono il regno e la venuta del loro Signore, guardano al futuro con speranza e vogliono continuare a dire, meglio, a essere una "buona notizia", un "evangelo", come il loro Signore ha chiesto ai suoi discepoli.

Così i cristiani cercheranno di aprire cammini assieme agli altri uomini, con loro si sforzeranno di edificare la polis senza titoli di privilegio, senza ricette infallibili, senza pretese di egemonia. Il vangelo, infatti, ispira i loro progetti ma non ne detta la forma di realizzazione, da ricercarsi assieme agli altri cittadini non cristiani. Nessun fondamentalismo, quindi, né tantomeno integralismo - sempre figli dell'angoscia di salvezza e di dominio - devono inficiare l'attiva presenza dei cristiani nella società. Essere cristiani significherà allora impegno a servizio della comunità politica, indicazione di vie per l'Europa caratterizzate da orientamenti etici quali la giustizia, la partecipazione di tutti al benessere, la pace e la convivenza come qualità della vita. Allora l'Unione europea non sarà un "bene" esclusivo per i propri cittadini, bensì estensibile a tutti gli altri paesi del mondo.
Ma esiste anche un altro contributo che i cristiani dovrebbero dare per essere veramente fedeli al vangelo e autenticamente "profetici": la ricerca dell'unità. Unità dei cristiani, innanzitutto: se i discepoli di Gesù Cristo continuano a essere divisi, a opporsi tra loro, se non riescono nemmeno a incontrarsi per discutere i motivi di dissenso (come avviene invece addirittura tra schieramenti politicamente opposti o tra governi ostili), se di fatto con il loro proselitismo fomentano il "mercato delle fedi", allora il loro stesso agire per il progresso della fede risulterà depotenziato e la loro eventuale e occasionale alleanza su singoli aspetti della normativa europea sarà letta dai non cristiani come unione strategica, come lobby volta ad acquisire peso e potere presso le istituzioni politiche. Tra le chiese occorre che l'ecumenismo, formalmente dichiarato come impegno irrinunciabile, divenga un atteggiamento quotidiano che non consenta a una chiesa di avanzare senza l'altra o, peggio ancora, contro di essa: solo così si potrà predisporre tutto in vista di una comunione autentica e feconda. La chiese d'Europa hanno elaborato, discusso e approvato insieme una "carta ecumenica", ma questa va realizzata giorno dopo giorno, con audacia, pazienza e tenacia.
Ma l'unità delle chiese deve essere perseguita anche come servizio all'unità dell'umanità: i cristiani devono collocare ogni processo di unità in una prospettiva universale, a servizio dell'intero genere umano. Un impegno per la concordia tra le genti e le culture va accompagnato dalla ricerca convinta della pace, dall'educazione alla convivenza pacifica delle nuove generazioni cristiane che non hanno conosciuto gli orrori della guerra, da uno sforzo a evitare qualsiasi scontro di civiltà e a volgere invece le tensioni in occasioni di confronto e di arricchimento reciproco. Allora si potrà andare verso una mondializzazione della solidarietà, una globalizzazione della giustizia e della pace. Solo così si potrà sempre di più pensare e progettare insieme la "governanza mondiale", obiettivo per il quale un'Unione europea capace di umanesimo potrà dare il suo fondamentale contributo.


Enzo Bianchi, Comunità di Bose


LA CHIESA CLANDESTINA IN CINA

DA SAPERE
I Cattolici cinesi sono 12 milioni e sono divisi in due grandi gruppi. Da una parte ci sono quelli che hanno aderito all’«Associazione patriottica dei cattolici cinesi», l’organismo voluto nel 1957 dal Partito Comunista per sganciare dal Papa i fedeli. Questa entità nomina autonomamente i propri vescovi e teorizza il legame tra Chiesa e Stato. Anni di persecuzioni, particolarmente dure durante la Rivoluzione culturale (1966-76), non sono riuscite a soffocare la presenza di una Chiesa clandestina rimasta in comunione con Roma.
UNITA’: CINA, IL GRIDO DELLA CHIESA CLANDESTINA
Non possiamo più a lungo ignorare la preghiera del Signore Gesù «che tutti siano uno». Come vescovo, pastore del gregge della diocesi di Lanzhou, sento che sono obbligato a dire ai miei fratelli vescovi: liberiamo i cattolici cinesi da questa ambigua situazione di divisione. Il desiderio del Papa, tante volte espresso... ci incoraggia a riconciliarci". L'appello di mons. Giuseppe Han Zhihai, 39enne vescovo «sotterraneo» della diocesi di Lanzhou, nel Gansu, una delle regioni dove è più forte la persecuzione, va dritta al cuore: è tempo che Chiesa ufficiale e Chiesa clandestina siano unite, secondo il volere di Gesù e secondo il desiderio di Giovanni Paolo II. Un appello coraggioso: anzitutto perché un gesto così - una lettera «agli amici» vescovi ufficiali e non ufficiali – non sarà ben visto dall'Ufficio Affari Religiosi del governo, secondo cui nessun passo della Chiesa può essere compiuto senza il suo permesso e consenso; da questo punto di vista la lettera è qualcosa di illegale, che fa temere conseguenze sulla persona del vescovo. Ma l'appello è coraggioso soprattutto perché viene da un vescovo della Chiesa clandestina, finora la più restia a collaborare con la Chiesa ufficiale. Non senza ragione: per quasi 50 anni, dalla formazione dell'Associazione Patriottica, il governo ha tentato in tutti i modi di controllare e isolare la Chiesa cinese da tutti i suoi rapporti con la Santa Sede e con la comunità universale. E mentre l'Associazione Patriottica proclamava il programma delle Tre Autonomie (di dottrina, di gerarchia, di amministrazione), rasentando lo scisma, molti vescovi, preti e fedeli, pur di non tradire il rapporto col Papa, hanno accettato di essere perseguitati, messi in prigione, uccisi. La conseguenza è stata una sempre più forte estraneità e divisione fra le due comunità, fino ad evitare e perfino rifiutare la celebrazione eucaristica comune. II vescovo lo ricorda nella lettera: "Siamo molto dispiaciuti [della divisione]... ma abbiamo preferito quella situazione, piuttosto che avere l'intera Chiesa cinese separata da Roma".
Negli ultimi vent'anni sono successi fatti importanti: molti vescovi e sacerdoti della Chiesa ufficiale, hanno chiesto e ottenuto la riconciliazione con la Santa Sede, divenendo a tutti gli effetti vescovi della Chiesa cattolica. A questo passo essi sono stati spinti da diversi fattori: dalla Rivoluzione Culturale (e poi dal massacro di Tienanmen), che ha cancellato le pretese "patriottiche" del governo, rivelandolo come un'asfissiante struttura di potere; dall'approfondimento della fede cattolica, impossibile senza il legame con il Papa. Gli sforzi continui di Giovanni Paolo Il per la riconciliazione della Chiesa, come anche il suo atteggiamento di apertura verso Pechino, teso a manifestare il desiderio della Chiesa di servire il popolo cinese, hanno fatto il resto. A tutt'oggi, più dell'80% dei vescovi ufficiali sono in comunione con il Papa.' «insieme con i vescovi non ufficiali - scrive mons. Han - i vescovi legittimi formano di gran lunga la maggioranza dei vescovi cinesi». Questa situazioni non è ancora entrata nella mentalità dei fedeli: ancora adesso, in alcune parti della Cina - soprattutto dove i fedeli hanno subito persecuzioni più aspre - il rapporto fra le comunità è difficile e l'eucaristia non viene celebrata insieme. Un altro elemento che contribuisce alla divisione è, da una parte, la timidezza (e paura) di alcuni vescovi ufficiali a proclamarsi pubblicamente in comunione col Papa; dall'altra, l'asprezza di quei membri della chiesa sotterranea, che non sanno essere teneri verso i più deboli. La proposta di Han è netta: «Diciamo con chiarezza ai nostri fedeli che siamo in unità di fede col Santo Padre e con la Chiesa universale, così che sia chiaro l'uno all'altro da che parte stiamo. In tal modo potremo in pace, ma coraggiosamente, incontrarci a celebrare nell'eucaristia la nostra unità in Cristo». Le parole ricalcano quelle del Papa a Manila, nel 1995, quando in un messaggio ai cinesi chiese ai cristiani della Chiesa ufficiale di essere «più espliciti» nel loro rapporto con la Santa Sede e ai cristiani sotterranei di essere «più caritatevoli verso i deboli». Va detto comunque che fra tanti vescovi la collaborazione (anche se non pubblica) esiste. Mesi fa, un vescovo della Chiesa ufficiale ci ha confermato che «ormai la Chiesa di Cina é una» e in molte diocesi i pastori collaborano insieme nella pastorale. Si ne sono accorti il governo e l'Associazione Patriottica, che negli ultimi anni non fanno chi incrementare le regole le condizioni di controllo della Chiesa ufficiale: vescovi ufficiali vengono isolati e vigilati giorno e notte, seminaristi subiscono sessioni politiche ogni settimana, le visite dall'estero sono monitorate ad ogni passo; intanto fedeli della Chiesa sotterranea vengono imprigionati. Ma seno gli ultimi guizzi di una partita che sembra persa: la Chiesa di Cina è saldamente ancorata alla Roccia di Pietro, anche dentro la persecuzione, che unisce ormai ufficiali e non ufficiali.

ARRESTATE QUEL PRETE COLPEVOLE DI CATECHISMO
Un sacerdote "sotterraneo" è stato arrestato per aver celebrato la Messa durante un campo estivo di catechismo. Padre Chi Huitan, della diocesi di Baoting, e due laici sono stati arrestati lo scorso 9 agosto a Lijiatong, villaggio situato a 280 km da Pechino e nel quale vivono un centinaio di cattolici. Padre Chi, come ogni estate, aveva organizzato lezioni di catechismo e stava celebrando la messa, quando 35 auto della polizia e oltre 100 agenti hanno circondato il luogo e hanno arrestato il sacerdote e i due laici che lo aiutavano. Questi ultimi sono stati rilasciati in giornata. Il sacerdote è accusato di aver profondamente turbato l'ordine pubblico e non gli è consentito vedere nessuno. E' la terza,volta che padre Chi viene arrestato per gli stessi motivi, sempre durante le lezioni estive di catechismo. In questi giorni è intanto stato rilasciato mons. Giulio Jiazhiguo, vescovo "sotterraneo" di Zhengding, che era stato arrestato lo scorso 23 maggio. Anche lui è stato arrestato per l'ennesima volta perché si rifiutava di appartenere all'Associazione Patriottica.


Carlo Maria Martini
«Ogni popolo guardi il dolore dell’altro e sarà pace»


“Io sono il Signore tuo Dio… non avrai altri dèi di fronte a me” (Esodo 20,2) “Egli [Allah] è Dio e non vi è altro Dio che Lui” (Corano, Sura del bando LIX 22)
Il comandamento dell’unicità di Dio tocca profondamente il cuore di ebrei, cristiani e musulmani, segnando un principio irrinuciabile di vita e di azione. C’è un Dio solo, potente e misericordioso, e nulla è comparabile a lui. É il primo comandamento del decalogo ebraico-cristiano e uno dei pilastri della concezione religiosa islamica.
Ma è anche un precetto segreto che risuona nel cuore di ogni persona umana: chi adora o serve in ogni modo un idolo ha una coscienza almeno vaga di voler “usare” la divinità o comunque un principio assoluto per i propri scopi, sente che sta strumen-talizzando e sottoponendo ai propri interessi un sistema di valori a cui occorre invece rendere onore. Per questo chiunque adora un idolo intuisce che in qualche modo si degrada, sta facendo il proprio male e sta preparandosi a fare del male agli altri.
Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Più radicati e potenti, duri a morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando sembra escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli della violenza, della vendetta, del potere (politico, economico, militare,…) sentito come risorsa definitiva e ultima. É l’idolo del volere stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche se non si presentano con le vesti rispet-tabili della giustizia e del diritto, sono in realtà assetati di sangue umano. Essi han-no una doppia caratteristica: schiavizzano e accecano. Infatti, come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli diviene schiavo degli idoli, anche di quelli invisibili: non può più sottrarsi, ad esempio, alla spirale perversa della vendetta e della ritorsione. E chi è schiavo dell’idolo diventa cieco riguardo al volto umano dell’altro. Ricordo la frase con cui alcuni giovani ex terroristi degli anni ’80 cercavano di descrivere come avessero potuto sparare e uccidere:”non vedevamo più il volto degli altri”.
Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno che c’è un’adorazione di questi idoli e che essi ripagano con la loro moneta distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia solo nella violenza e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere l’altro e alla fine distrugge se stesso. Già san Paolo ammoniva: “se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”. E ancora:”Non vi fate illusioni: non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato” (Lettera ai Galati 5,15 e 6,7). Siamo nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo di solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano. Nell’adorazione dell’idolo della po- tenza e del successo totale ad ogni costo è l’idea stessa di uomo, di umanità che viene offesa, è l’immagine stessa di Dio che viene sfigurata nell’immagine sfigurata dell’uomo.
Ma proprio da questa situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi in un tragico vi- colo cieco di violenza - a cui ha fatto più volte allusione il Papa Giovanni Paolo II - può scaturire un grido di allarme salutare e urgente, più forte dell’idolatria del potere e della violenza. É un grido che si traduce concretamente nel proclamare che non vi sono alternative al dialogo e alla pace. Lo sta da tempo ripetendo in tanti modi Giovanni Paolo II. Ma esso è un grido che precede le dichiarazioni pubbliche, per quanto accorate. Risuona infatti nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo che si ponga il problema della sopravvivenza umana. Di alternativo alla pace vi è solo il terrore, comunque espresso. Quando la sola alternativa è il male assoluto, il dialogo non è solo una delle possibili vie d’uscita. ma una necessità ineludibile. Per questo i leader di tutte le parti tra loro contrastanti debbono rischiare senza esitazioni il dialogo della pace.
Tutto questo fa emergere ancora più chiaramente le responsabilità della comunità internazionale, quelle dell’ONU e quelle dell’Europa, quelle degli Stati Uniti, della Russia e dei Paesi Arabi. É necessario che tutti aiutino il processo di pace che si era appena iniziato, con una pressione forte e convinta a favore della Road Map e anche con la prontezza a fornire un sostegno politico e finanziario alle comunità che hanno il coraggi di rischiare la pace. Alla costruzione di muri di cemento e di pietra per dividere le parti contrastanti, è preferibile un ponte di uomini che, pur garantendo la sicurezza di entrambe le parti, consenta alle due comunità di comunicare e di intendersi sempre più sulle cose essenziali e su quelle quotidiane.
Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solamente al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace.
Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al di sopra di tutto, dimenticando l’altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell’idolo consiste nel mettere l’altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative.


Carlo Maria Martin
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Come trovare la strada giusta?
Quando vediamo dei bambini in ozio o incantati davanti alla Tv, ci viene una grande tristezza, tanto più se si tratta di Tv poco adatta a loro. Pensiamo alle tante occasioni perdute. Occasioni anche di leggere, di guardare con interesse un fiore, o un animale, o un nido fra i rami, o un volo di gabbiani. Devono esser i genitori, prevalentemente, ad attirarli su questi spettacoli. Più tardi ci accorgeremo che sono proprio i bambini a «stimolare» i genitori. «Guardate, che belle paperette!». Oppure: «La luna stasera è più luminosa del solito». Osservazioni ed emozioni da condividere.Mai avvenga di evitare di intrattenersi con i propri figli, di scambiarsi idee ed emozioni .Aiutiamoli ad allargare i propri orizzonti con nozioni ed esperienze utili, che diventino in seguito un valido bagaglio di conoscenze. Favoriamo il loro inserimento nella vita sociale, aiutandoli a sapere stare con gli altri, a rispettare gli altri, adulti o bambini che siano. I bambini che vengono privati di tali insegnamenti, di intelligenti e aperti rapporti con gli altri, finiscono col diventare degli asociali.
Tante storture e devianze che troviamo in alcuni adolescenti e giovani di oggi: apatia, svogliatezza, indifferenza a tutto e a tutti dipendono in gran parte dal fatto di essere stati lasciati a se stessi, senza un ordine, senza interessi, senza veri rapporti umani.
I genitori dovrebbero proprio riflettere sui rapporti adulto-bambino. Sono determinanti.

MI SARETE TESTIMONI


Sono le parole di Cristo ai suoi Apostoli, scelte dal nostro arcivescovo come titolo del "Percorso pastorale diocesano" per il triennio 2003-2006.
Siamo tutti chiamati e mandati da Cristo- all'evangelizzazione e alla trasmissione della fede, oggi, nel tempo presente, ma aperti al futuro; nelle nostre comunità familiari e nere nostre comunità parrocchiali, ma immersi nel mondo a servizio del Regno.
Unico annuncio dell'evangelizzazione, unica "buona notizia" è Cristo: Cristo, il "cuore" della fede e dell'evangelizzazione, Cristo, vero Dio e vero uomo, Cristo, l'unico, universale e necessario Salvatore.
Lui ci chiama ad essere partecipi e continuatori della Sua missione.
La Chiesa deve riacquistare uno slancio missionario, deve educare a una coscienza missionaria nuova, deve fare scelte pastorali missionarie, non anteponendo nulla a Cristo!
Ecco ora due aspetti particolari della testimonianza e dell'evangelizzazione cui tutti siamo chiamati: l'attenzione ai missionari nel mondo e quella ai nostri bambini e ragazzi.
La nostra Parrocchia cerca di mantenere vivo lo spirito missionario aperto al mondo con un'attenzione costante a molti missionari, con la preghiera e l'aiuto materiale ad alcuni missionari, ad alcuni seminaristi dell'Est, che si preparano al Sacerdozio, grazie anche alla generosità di molte persone, oltre che alle iniziative del gruppo missionario e dei ragazzi dell'oratorio.
L'attenzione ai bambini e ai ragazzi richiede che siano educati alla fede, ricevano l'unico annuncio che salva, sentano parlare della Verità: Cristo Gesù.
Nella Chiesa, e quindi anche nella nostra parrocchia, i genitori continuano a chiedere i Sacramenti per i propri figli: Battesimo, Prima Comunione, Cresima. Ma come e perché? Per continuare una tradizione? Che significato viene attribuito realmente dalle famiglie e dai singoli a questi "appuntamenti" di Chiesa? E il significato di un vero e proprio sacramento, cioè di un incontro misterioso e reale di Dio che salva l'uomo, una risposta personale e vitale dell'uomo all'amore di Dio? Oppure è il significato di una semplice cerimonia, che è diventata costume sociale e che si risolve in elementi esteriori come i vestiti, i regali, gli inviti, le fotografie, i pranzi? II forte richiamo del Vescovo su questo punto è un invito ad una riscoperta della nostra fede in Cristo e nei Sacramenti, perché la nostra consapevolezza sia da esempio ai più piccoli.
I catechisti, testimoni di Cristo, annunciatori dei Vangelo vivono con i bambini e i ragazzi il cammino di preparazione ai Sacramenti dell'iniziazione cristiana, consapevoli della grande responsabilità cui la Chiesa li chiama, attenti a porre sempre al centro della loro azione Cristo e non se stessi, la Verità e non le proprie convinzioni, la consapevolezza che senza di Lui non si può nulla. E tutta la comunità, per essere veramente in missione, come ci richiama anche il tabellone posto in fondo alla nostra chiesa, non può vivere senza la domenica "giorno della fede" e "giorno dell'Eucaristia", celebrata in Parrocchia con tutta la comunità, arrivo e partenza di ogni settimana.


Gruppo missionario, Gruppo catechisti


Madre Teresa di Calcutta: storia di una vocazione


Madre Teresa di Calcutta (Agnes Gonxha Bojaxhiu) nasce il 26 agosto 1910 a Skopje da una famiglia cattolica albanese. Cresce nella parrocchia di Cristo Re, dove frequenta un gruppo di preghiera e di aiuto per le missioni, dove incontra dei padri gesuiti che lavorano a Calcutta, nell’India. L’esperienza dei missionari la colpisce profondamente e a 18 anni entra nella congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto. Nel 1928 parte per l’Irlanda e un anno dopo è a Darjeeling, alle pendici dell’Himalaya per il noviziato. Nel 1931 prende i voti e il nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù. Per circa 20 anni insegna a ragazze di buona famiglia in un collegio di Calcutta. Ma oltre il muro di cinta c’è Motijhil, con i suoi odori acri e soffocanti, una delle periferie più miserabili della megalopoli indiana, la discarica del mondo. Suor Teresa, pur sentendone i miasmi, non lo conosceva. Era l’altra faccia dell’India, un mondo a lei sconosciuto, fino alla sera del 10 settembre 1946, quando avvertì la “chiamata nella chiamata”, mentre in treno si recava a Dajeerling per gli esercizi spirituali.
Stretta in un cantuccio faticosamente conquistato, pensava alla folla di affamati, storpi, ciechi e lebbrosi che popolavano i marciapiedi di Calcutta. Quella notte non riesce a dormire e si ripete continuamente: Devo fare qualcosa! Durante tutto il viaggio le risuona nella testa e nel cuore il grido dolente di Gesù sulla Croce: Ho sete. É un misterioso richiamo, sempre più chiaro e pressante con il passare delle ore: deve lasciare il convento per servire i più poveri tra i poveri, quel genere di persone che non sono niente, che vivono ai margini di tutto, i derelitti che ogni giorno agonizzano sui marciapiedi indiani, senza nemmeno la dignità di poter morire in pace. Nel 1947 Pio XII la autorizza a lasciare la sua congregazione per lavorare per i poveri. Veste con il sari orlato di azzurro delle indiane più povere e ha in tasca 5 rupie! A Calcutta passa da una baracca all’altra, lavando i bambini, i vecchi piagati, le donne sofferenti. Gira chiedendo cibo e medicine, mendicante lei stessa per curare e sfamare i poveri. Apre una scuola all’aria aperta, come lavagna la terra polverosa, circondata da mendicanti e bambini affamati, mentre sui marciapiedi ai lati della strada stanno coloro che non si nemmeno se erano ancora vivi oppure morti. “La prima persona che tolsi dal marciapiede era una donna mangiata per metà dai topi e dalle formiche. La portai con un carretto all’ospedale, non volevano accettarla, se la tennero soltanto perché mi rifiutai di andarmene se non l’avessero ricoverata…”: così racconterà madre Teresa. L’opera della fragile suora continuerà e il suo corpo è tutto dolorante per la fatica. “I poveri sono il tramite attraverso il quale esprimiamo a Dio il nostro amore”. La sua abitazione è una baracca sterrata, dove ricovera chi non è accolto dagli ospedali. Nel febbraio 1949 un funzionari statale mette a sua disposizione un locale all’ultimo piano di una casa di Creek Lane. Lì viene raggiunta dalla prima consorella, Shubashini, che prende il nome di suor Agnes, nome di battesimo di madre Teresa. Poi le suore divennero quattro, otto, dodici: la comunità andava formandosi. Da questo momento in poi cominciava la corsa da gigante della piccola Gonxha di Skopije, diventata la madre Teresa che oggi tutti conoscono.


Il Rosario mi aiuta ad essere fanciullo
“Recitiamo il Rosario!”: era un’espressione abituale di Albino Lucani quando si metteva in viaggio in automobile. “Il Rosario è il breviario dei poveri, la Bibbia dei poveri, il Rosario me lo ha insegnato mia madre”, era solito dire. Quando salutava persone nelle quali scorgeva semplicità e fede, diceva: “ Mi dica un’Ave Maria, perché il diavol non me porte via!”. Egli osservava anche che la sua vita si era svolta attorno a tante chiese e santuari della Madonna. Da fanciullo, ancora assonnato, accompagnava la mamma, recitando il Rosario, ai santuari della Madonna della Grazie di Alleghe e di Pietralba. Da vescovo andava pellegrino, con la corona in mano, ai santuari della Madonna a Follina, a Motta di Livenza, a Monte Berico, a Castelmonte, a Trieste, a Venezia, a pregare davanti alle immagini di Maria. Scriveva: Sono vissuto sotto lo sguardo della Madonna. La Madonna si è sentita guardata da Dio. É importantissimo per me cristiano che mi senta oggetto dell’amore che Dio mi porta.
Ecco qui sotto alcuni passi dell’omelia che Albino Lucani, allora Patriarca di Venezia, tenne il 7 ottobre 1973 in occasione della celebrazione del IV centenario della festa del Rosario.

Se invitassi, durante un’adunanza di cattolici, signore e signori a mostrare quel che tengono in tasca o nella borsetta? Vedrei certo in quantità pettini, specchietti, rossetti, portamonete, accendisigarette ed altre coserelle più o meno utili. Ma quante corone del rosario? Anni fa, ne avrei viste di più. Nella casa del Manzoni a Milano, appesa in capo al letto, si vede anche oggi la sua corona: la recitava abitualmente e nei Promessi Sposi la sua Lucia tira fuori la corona e recita il rosario nei momenti più drammatici. Windhorst, uomo di stato tedesco, fu invitato una volta da alcuni amici non praticanti a mostrare la sua corona. Era uno scherzo: gli avevano prima sottratta la corona dalla tasca sinistra. Windhorst, non avendola trovata nella sinistra, mise la mano nella tasca destra e fece bella figura. Aveva sempre con sé una corona di ricambio! Cristoforo Gluck, grande musico, durante i ricevimenti alla corte di Vienna, si appartava alcuni minuti per recitare il rosario. Il beato Contardo Ferrini , professore universitario a Pavia, invitava a recitarlo gli amici nella cui casa era ospite. Santa Bernardetta assicurava che, quando la Madonna le apparve, aveva la corona al braccio, e le chiese se essa pure l’avesse, invitandola a recitarla, mentre la Vergine raccomandò ai tre pastorelli la recita del rosario.
Perché ho incominciato con questa serie di esempi? Perché il rosario dal alcuni è contestato. Dicono: è preghiera infantilistica, superstiziosa, non degna di cristiani adulti. Oppure: è preghiera che cade nell’automatismo, riducendosi a ripetizione frettolosa, monotona e stucchevole di Ave Maria. Oppure: è roba d’altri tempi; oggi c’è di meglio: la lettura della Bibbia, per esempio, che sta al rosario come il fior di farina sta alla crusca! Mi permetto di dire in proposito qualche impressione di pastore d’anime.
Prima impressione: la crisi del rosario viene in secondo tempo. In antecedenza c’è la crisi della preghiera in generale. La gente è tutta presa dagli interessi materiali, all’anima pensa pochissimo. Il fracasso poi ha invaso la nostra esistenza. Macbeth potrebbe ripetere: ho ucciso il sonno, ho ucciso il silenzio! Per la vita intima e la “dulcis sermocinatio” o dolce colloquio con Dio, si fa fatica a trovare qualche briciola di tempo. É un danno. Diceva Doloso Cortes: «Oggi il mondo va male perché ci sono più battaglie che preghiere». Si sviluppano le liturgie comunitarie, che sono certo un gran bene; esse però non bastano: occorre anche il colloquio personale con Dio.
Seconda impressione. Quando si parla di «cristiani adulti» in preghiera, talvolta si esagera. Personalmente, quando parlo da solo con Dio, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo. La mitra, lo zucchetto, l’anello scompaiono; mando in vacanza l’adulto e anche il Vescovo, con relativo contegno grave, posato e ponderato, per abbandonarmi alla tenerezza spontanea, che ha un bambino davanti a papà e mamma. Essere - almeno per qualche mezz’ora - davanti a Dio quello che in realtà sono con la mia miseria e con il meglio di me stesso: sentire affiorare dal fondo del mio essere il fanciullo di una volta, che vuol dire chiacchierare, amare il Signore e che talore sente il bisogno di piangere, perché gli venga usata misericordia, mi aiuta a pregare. Il rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta mi aiuta a essere fanciullo, e non me ne vergogno punto.
Preghiera a ripetizione il rosario? Diceva padre De Foucauld: «L’amore si esprime con poche parole, sempre le stesse e che ripete sempre».